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“Facelift”, capitolo uno dell’espiazione del grunge

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Nel 2014 finalmente ebbi l’occasione di andare col mio caro cuginetto al concerto del gruppo col quale ho cominciato a perdermi nella musica, i Metallica. Tra i gruppi di apertura ce n’era uno che suonava un po’ strano lì in mezzo, dal nome non poco ingombrante: gli Alice In Chains, riunitisi circa dieci anni prima. Mi sono sempre state sul cazzo le reunion anni dopo un tragico evento, e qui l’evento è stato davvero tragico, e nonostante il peso del loro nome rimasi abbastanza indifferente nel vederli nei gruppi di giornata. Risultato? Da quel giorno in poi gli Alice In Chains sono stati la mia ancora di salvataggio nei periodi in cui non sapevo cosa ascoltare. La loro performance fu davvero qualcosa di tosto, dimostrarono che la loro reunion non fu una questione di tornaconto ma avevano davvero ancora qualcosa da dire; il giorno dopo ascoltai i nuovi album rilasciati ed erano davvero sinceri. Doppiamente sinceri, perché colmare il vuoto della morte di Layne Staley era un’impresa impossibile, loro ce l’hanno fatta.

Si potrebbe dire che gli Alice In Chains facciano parte dei “big four” del grunge, insieme a Soundgarden, Pearl Jam e Nirvana, così come si potrebbe tranquillamente dire che sono il gruppo che più si discosta dal grunge (che poi il grunge non è propriamente un genere ma vabbè dettagli), a livello musicale e soprattutto a livello “catartico”, e questo viene messo subito in chiaro con “Facelift“. “Facelift è stato il loro primo LP, preceduto solo dall’EP “We Die Young“, contenente l’omonimo singolo che aprirà senza fronzoli le danze del protagonista dell’articolo. Recandosi in bus ad un garage studio o quello che fosse dove avrebbe suonato con gli altri, Jerry Cantrell vide bimbi freschi di prima comunione aventi già progrediti modelli di organizzazione per spacciare droga.

We Die Young è una canzone lapidaria, che non lascia fiato, così come il resto dell’album, pensando che siano rispettivamente singolo e LP d’esordio, oltre che un tristissimo presagio di quello che sarà il destino di Layne. Layne, nel mio esercizio preferito di rispondere ad una domanda/esprimere un giudizio chiudendo gli occhi ed esprimermi, alla domanda “chi è il più grande cantante di sempre?” potrei rispondere tranquillamente Layne Staley. Poche sono state le voci che sono riuscite ad infondere un sentimento come lo ha fatto lui; che fosse amore, che fosse paura, che fosse dipendenza, Staley le ha espresse come solo lui ha saputo fare, creando quasi un sentimento tutto suo. In We Die Young lui è dall’altro lato dei bimbetti che vendono, incapace di uscire dai suoi tormenti, li fermo, a cantare il suo testamento, a condannare ambo i lati. E poi, chi riuscirebbe a cantare Love, Hate, Love come lui?

In verità l’album non è “Facelift“, l’album sono gli Alice In Chains. Mi piace vedere ogni loro lavoro come una singola goccia che va a formare “l’oceano” (non sono stati molti i lavori sfornati) della loro produzione. “Facelift” non è un capolavoro, ma inserendolo nel contesto degli Alice lo diventa. Gli Alice hanno rappresentato l’espiazione del grunge e la parte più sincera (non che gli altri fossero falsi eh) ed emotiva del movimento di Seattle, nonostante le sonorità nettamente più dure.

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