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Retrospettive

No surrender, la vera storia di Massimo Priviero

Foto: priviero.com

Lungo la costa Veneta. In un angolo di laguna dove a tirare le reti ci si guadagna ma forse si può iniziare a pensare di fare altro, abita una famiglia umile. Genitori e due figli, un maschio e una femmina. I quattro vivono dignitosamente grazie al lavoro di padre e madre. Il padre è proprietario di un negozio di articoli balneari come se ne vedono ovunque lungo le coste della penisola, veri bazar ove acquistare di tutto per allietare le giornate estive di bambini e adulti. La madre, invece, ormai da anni lavora come infermiera all’ospedale di Jesolo. Fra i due figli Massimo, il figlio maggiore, presenta tratti decisamente inconsueti per un giovane della sua età. Ha sì una passione viscerale e comune a molti coetanei per il gioco del calcio, al punto da trascorrere le sue giornate giocando in strada, all’oratorio e ovunque sia possibile calciare un pallone possibilmente sotto gli occhi vigili del padre, ma a questa passione ancestrale ne aggiunge anche un’altra che in futuro ne tratteggerà sia l’anima che la professione.

Massimo è un appassionato di storie da raccontare, desidera capire meglio cosa ruoti attorno a quel mondo pieno di novità per alcuni aspetti fuori luogo, come la stagione balneare che in appena cinque, sei mesi al massimo, porta migliaia di turisti a rovesciarsi lungo la costa veneta per poi lasciare deserto e freddo quell’angolo di alto Adriatico ancora dedito alla pesca e a tutto quello che anima una piccola comunità in fin dei conti ancora rurale e forse troppo velocemente proiettata in un nuovo benessere. Inoltre, e questa diventerà quella passione che l’accompagnerà per sempre, Massimo vuole capire meglio la sua famiglia e la storia dei suoi luoghi, al punto di pendere dalle labbra di un nonno sfuggito per miracolo a una sorte avversa durante la prima guerra mondiale.

Proprio per riuscire a capire meglio cosa significasse un conflitto vissuto in prima linea, inizia ad appassionarsi alla lettura e alle storie narrate nei libri, cominciando dai classici, prendendosi all’occorrenza un foglio e del tempo per fissare qualche ricordo e pensiero stando seduto preferibilmente sulle rive del mare, rigorosamente in solitaria, alternando quindi i momenti di svago con lunghe riflessioni su quel che legge e ascolta dalle narrazioni di chi lo ha preceduto, con il nonno ovviamente quale primo interlocutore. La musica per chi si abbevera alla corte dei classici arriva come uno tsunami preannunciato da una piccola tempesta. Un compagno di classe gli fa ascoltare un disco di Dylan e in cuffia quel pugno di canzoni cancella del tutto la possibilità di far diventare il giovane un fruitore di musica di casa nostra, al punto che in età adulta, e ormai artista a tutto tondo, Massimo non nega la passione per la musica di matrice anglo americana ignorando, per buona pace dei suoi detrattori, quel che anche di buono proviene dal bel paese.

Foto: priviero.com

Partendo da Dylan, aggiungendovi molta musica acquistata ovunque (i giorni di Napster e del download selvaggio sono ancora ben distanti), una chitarra per imparare in autonomia i primi accordi e molta pazienza in riva a quelle sponde, Massimo nel breve volgere del quinquennio liceale, ovviamente classico, diventa un esperto di musica d’oltre oceano, o mal che vada d’oltre manica, e inizia a maturare la certezza che o di scrittura o di musica, rigorosamente senza compromessi, dovrà provare a vivere e non certo di sport anche se, abbandonati i sogni di calciatore abile nel dribbling, aveva sostituito l’italica pedata con il basket, esordendo anche in serie C con buoni risultati. Terminato il liceo, che a suo dire viene completato con lo sforzo minimo, s’iscrive alla facoltà di Geologia, ma dopo un anno, qualche viaggio nello zaino in giro per il vecchio continente, la calma serafica con la quale desidera proseguire i suoi studi, passa al corso di laurea in storia contemporanea con la promessa, nei confronti del padre e della madre, di cercare la sua strada nel mondo e di completare quel corso senza troppa ansia di gettarsi nella mischia.

La musica ormai lo avvolge, ha desiderio di misurarsi con questo mondo, al punto che fin dagli anni del liceo un albergo sfitto diventa il luogo dove assieme a un manipolo di amici inizia a provare cover e pezzi di sua creazione, la gavetta è lunga e se per gli altri quelle lunghe giornate sono vissute come una sorta di passatempo per Massimo invece sono una sorta di misura delle sue capacità. L’università nel frattempo trascorre tra un esame e un viaggio, il nonno se n’è andato ma rimarrà sempre moralmente presente, l’anno e mezzo di obiezione di coscienza, in alternativa al servizio militare, passa all’interno di una biblioteca lontano da casa, e nel frattempo l’animo bohemien inizia a scontrarsi con la caccia alle prime conferme partendo da Milano, sede di produttori e case discografiche, bussando alle porte delle etichette, facendosi rimpallare da segretarie che fanno da filtro e che lo liquidano consigliandogli la spedizione di cassette con i suoi pezzi e rimanendo in attesa di una possibile risposta, che anche in tal caso la posta elettronica e internet sono di là da venire. La caccia è lunga, ma il ragazzo è tenace e un produttore in particolare vede in Massimo e in un paio di pezzi, una buona possibilità di appeal radiofonico.

La vita trascorre fra un lutto, il padre scompare in ospedale mentre Massimo è impegnato nella stesura del suo primo disco, la conclusione del servizio civile e gli esami di storia contemporanea che proseguono a ritmo lento che tanto il ragazzo già sa che difficilmente diventerà un docente di liceo. San Valentino, esce nel 1988, preceduto da un video ben riuscito ma con un arrangiamento più incline alla musica leggera che al rock, e una serie di manifesti affissi nelle maggiori città accompagnati da una frase di lancio che agli occhi di Massimo diventano la prima delle avvisaglie verso una produzione che non ha nulla a che vedere con il contenuto del disco, ma semmai è molto, anzi troppo interessata a ricalcare la vendita di un prodotto qualunque.

Ho visto il futuro del Rock e il suo nome è Massimo Priviero

Grosso modo la frase incriminata, e incriminante, è questa e ricalca la medesima con la quale nel 1974 John Landau, allora critico musicale, etichettò Bruce Springsteen. Massimo vede in quella frase tutti i pericoli del caso sotto forma di domande scomode che gli saranno poste dagli intervistatori e con la gente che si domanderà inevitabilmente: “ma che questo davvero si crede Springsteen?”. Le vendite doel primo disco vanno però molto bene e al Festivalbar, contenitore degli ottanta per hit estive, San Valentino ottiene un buon successo.

Per l’uscita di “Nessuna resa mai“, secondo disco e futuro mantra, Massimo trova anche la collaborazione con Little Steven, chitarrista di Springsteen ed ex membro della E-Street Band. Il disco ha una gestazione difficile e lo stesso Van Zandt fatica a capire certe dinamiche della produzione discografica di casa nostra, lui che ha collaborato con il boss e che è una star internazionale. Le vendite ricalcano quelle di San Valentino, ma il gioco pare iniziare ad incrinarsi. Siamo nel 1992, con un matrimonio appena celebrato con Lia, fidanzata storica e conosciuta per ragioni professionali, e un figlio in procinto di nascere, Massimo apprende che la sua casa discografica inizia a vedere in un suo alter ego emiliano un possibile contender, un rocker che a trent’anni ha in cantiere un disco e una manciata di canzoni perfette per la radio e dal sicuro successo commerciale.

A nulla valgono le buone vendite di “Nessuna resa mai“, Massimo viene scaricato dalla sua casa discografica e mai come ora quel mantra sotto forma di titolo diventa un modo per scacciare i fantasmi. Il figlio Tommaso gli fornisce un modo per allontanarsi in modo costruttivo dal circo mediatico nel quale ormai è proiettato da qualche anno, un modo anche per radunare le idee e completare quegli studi di storia contemporanea che erano rimasti chiusi in un cassetto in attesa di trovare tempo sufficiente per mantenere quella promessa fatta al padre molti anni prima. Siamo ai giorni nostri, Massimo ha poi conseguito quella Laurea e ha inciso ancora molti dischi fidandosi a volte di sciacalli, a volte di truffatori, ma sempre con standard artistici incredibilmente elevati e con un pubblico che numericamente non sarà quello di Springsteen e Dylan, ma che si è trasformato in uno zoccolo duro come il diamante.

Nel frattempo quell’altro, che ha il cognome uguale a un pittore naïf, ha avuto quel successo che venne predetto nei primi anni ’90, ma questa è un’altra storia. Massimo ha continuato a sbagliare, anche se di testa sua, sempre con quel mantra ben preciso e fissato in mente arrivando a decidere di passare alla produzione solitaria per evitare intromissioni spiacevoli e impegnandosi su più fronti musicali, anche creando gospel di successo in occasione delle feste natalizie e con uno pseudonimo, e una raccolta di cover di matrice anglo americana per poter ripercorrere quei pezzi che ne hanno influenzato carriera e gusti.

Ha scritto un romanzo di vita riguardante la sua lunga carriera che si è poi trasformato in una presentazione e in uno spettacolo portato in giro esattamente come in presenza di una tournée, e quindi il bilancio della carriera da rocker bohemien ha sconfinato alla fine anche in altri generi, perché non solo di highway si vive da questo lato dell’oceano e l’Adriatico è in fondo un bel mare ove specchiare i propri sogni adolescenziali.

Massimo Priviero

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