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“Tubthumper”, i Chumbawamba al confine tra lotta sociale e MTV

Quando, nell’ormai lontanissimo 1998, mi fu regalato il celebre videogioco “World Cup ’98” per il mio PC baracca, tutto mi sarei aspettato tranne che di ascoltare – sull’allora pazzesca introduzione al gioco vero e proprio – una hit devastante come Thubtumping (anche se mi era già successo col suo predecessore “Road To World Cup ’98” e Song 2 dei Blur). Ma ancor meno mi sarei aspettato che ad aver scritto questo singolo annienta classifiche fosse una band anarcopunk. Non che a dodici anni avessi la benché minima idea di cosa fosse l’anarcopunk, ma ci sarei arrivato.

I Chumbawamba questo sono, ossia un gruppo, anzi, un collettivo formato da ferventi attivisti della scena anarchista/anarcopunk di Lancashire, Inghilterra, il posto in cui il punk divenuto presto mainstream e la sua attitudine anarchica ha subìto più di un attacco da parte delle band più ortodosse, una pletora in fermento, piena di rabbia e ideali politici che si trasformavano di continuo in azioni reali, fatte di DIY, volantinaggio, picchetti davanti a basi militari, manifestazioni della portata di Stop The City, concerti pericolosi che subivano le incursioni dei peggiori naziskin sulla piazza, droga, disperazione. In questo turbine di violenza e lotta, anche i Nostri ebbero il loro spazio combattente, e se il centro del ciclone erano i Crass, nella ferocia del vento c’erano anche loro.

Musicalmente meno feroci di tutti i loro sodali, più raffinati e attenti al tanto inviso songwriting, persero presto (forse sin da subito) il DNA strettamente punk abbracciando il folk e forme più orecchiabili, in un crescendo di fruibilità che a nessun altro venne in mente di risalire, facendo innamorare etichette che di DIY avevano ben poco. Nel ’97 con “Tubthumper” finirono così in televisione. I loro fan si chiesero dunque cosa fosse capitato al desiderio di lotta dei loro compagni, ma ancor di più, che fine avesse fatto il pensiero espresso in How To Get Your Band On TV, brano che apriva il primo album dei Chumba, la cui critica andava a pestare i piedi a tutti i più grandi della musica inglese, dal baronetto McCartney al Duca Bianco fino a Freddie Mercury e l’ipocrisia dei Queen riguardo apartheid e grandi concerti ad esso legati.

Photo by Mick Hutson/Redferns

Che fine avevano fatto i contenuti, ora che erano TV e che uscivano per EMI (quando appena nel 1989 la band compariva in una raccolta intitolata “Fuck EMI”)? Ora che il loro singolo di punta stava in una quantità infinita di compilation, la maggior parte delle quali erano più pop del pop (una griffata Coca-Cola, alla faccia della Coca-Colonisation)? Ora che un videogioco della EA Sports si apriva sulle note di quello stesso singolo? Erano sempre lì, e questo apre al quesito dei quesiti: poteva un disco dance (questo è) e commerciale vagliare significati profondi e di lotta sociale? A quanto pare sì, e con un approccio che avrebbe portato il messaggio ad un pubblico ben maggiore di quello degli squat inglesi e dei centri sociali. Qui sta l’enorme Nodo Gordiano inestricabile di tutti coloro che lottano contro il sistema e scelgono di buttarcisi dentro con tutte le scarpe. Paraculi o veri anarchisti liberi di scegliere quel che più pareva loro?

Domande che si portano dietro risposte sia soggettive che oggettive e che non cambiano quanto invece si trova in “Tubthumper”, tra inequivocabili sbronze (euro)dance, sbiellate techno, deragliamenti jungle, succosi laminati pop, ottoni modaioli e ritmiche hip hop (l’altro grande genere sotto accusa nello stesso periodo) quel che si può ascoltare è una serie di attacchi frontali alla società, memori di una vita vissuta cantando degli ultimi: sputando sui Labour che anziché mantenere le promesse di un socialismo illuminato hanno seguito l’apertura al centro di Tony Blair (One By One), i dolori di chiunque fosse colpito dalla crisi abitativa, da qui i movimenti squat, il freddo nelle ossa, la povertà che non permette di scaldarsi d’inverno (The Big Issue), i discorsi vacui dei politici colpiti da vuoti di memoria e necessità di incolpare sempre qualcun altro per i propri fallimenti (Amnesia, Scapegoat), mani tese verso chiunque sia messo alla berlina nella vita di tutti i giorni (Outsider), pugni sulle gengive del Cristianesimo e di tutte le sue confessioni ipocrite, bugiarde e disgustose nel loro ignorare quegli stessi ultimi che dicono di voler difendere, cosa che invece hanno fatto i ben più atei punk (Mary, Mary) e manifesti che si scagliano sui vecchi compagni di anarcoviaggio (The Good Ship Lifestyle).

Quel che mi chiedo io è se un simile esperimento non sia stato un fallimento totale. Chi comprò l’album per il suo gradiente pop ne lesse e comprese i contenuti? Al contrario gli anarcopunk invece superarono il proprio essere puritani anti-establishment e anti-pop per godere infine di un disco di lotta, seppur commerciale, gettando finalmente alle ortiche la chiusura mentale che li ha tramutati sempre più in una barzelletta, anziché in soldati in lotta per conto delle libertà sociali? Eppure, pensateci, se oggi una popstar si mette a parlare di problemi sociali forse non la si applaude (e quello sì che è paraculo), sicuri di una genuinità spesso inesistente, mentre ai Chumbawamba toccò il confino anarchico. Forse giustamente, forse no. Forse uno è più accettabile, mentre l’altro meno. E se ci fosse una via di mezzo?

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