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Interviste

Il nuovo polmone dell’hardcore made in Italy: la Sardegna e i suoi figli Regrowth

Photo: One Pint Productions

Questo articolo potrebbe iniziare con una frase anti-boomer come “in Italia l’hardcore non è mai morto, semmai è colpa della vecchia scuola che non vuole aprire gli occhi davanti alle novità!”, ma non sarà così. Certo, in molti sicuramente sono rimasti fermi ai fasti degli anni ’80 e ’90, ma meglio non svegliare il can che dorme per fargli scoprire che esiste un mondo nuovo (e forse migliore?) rispetto a ciò che è stato e non tornerà. Anzi, questa potrebbe essere una delle tante occasioni per far correre un certo tipo di ascolto attuale, giovane, fresco non solo a parole, quando ci si incrocia(va) a un live, bensì anche sulle importantissime colonne delle webzine della Penisola.

I Regrowth sono cinque ragazzi sardi, senza bandane né fare da duri, anzi. A conoscerli e parlarci assieme si respira da subito quello che in Sardegna è un po’ il marchio di fabbrica: voglia di condividere, di conoscere, di avvicinarsi e relazionarsi senza eccessivi filtri, mantenendo però intatto un proprio – invidiabile – orgoglio.

Come tutti i musicisti che si rispettino, soprattutto se inseriti in un contesto in cui ci si sente come dei leoni pronti a ruggire, piuttosto che degli umani pronti a chiacchierare, i Nostri traslano in sede live una potenza di fuoco che in molti, sicuramente, invidiano. Melodic hardcore di livello internazionale, quello dei Regrowth: riff melodici che esplodono in breakdown di stampo metalcore, sostenuti da testi che ricordano ovviamente i feels trasmessi da mostri sacri come Counterparts, Casey, Heart In Hand e Conveyer. Dopo una serie di lavori e singoli preliminari, la band cagliaritana giunge finalmente alla prova di studio più importante: “Lungs”, full leght di debutto che segna il punto 0 del quintetto sardo. Ve lo presentiamo di seguito in anteprima assoluta, buon ascolto!

Regrowth · Lungs

Abbiamo scambiato qualche parola con i ragazzi, per capire i retroscena del loro dodici tracce e per portare ai lettori di Impatto Sonoro il punto di vista di una delle migliori band underground in circolazione.

Prima di parlare insieme del vostro nuovo lavoro, mi piacerebbe presentare i Regrowth partendo dal loro nome, da cosa c’è dietro e da cosa vi portate sottopelle fin dal vostro esordio. Come sono nati i Regrowth e quale identità musicale – e personale – meglio raffigura questo progetto?

Ciao Luca, è un piacere essere ospiti per un’intervista. Il nome Regrowth nasce da un concetto semplice quanto polivalente. Nel linguaggio corrente viene utilizzato come termine legato alla crescita, anzi ricrescita, di una pianta a seguito di un trauma o di eventi naturali. In realtà, sin dal primo momento, abbiamo voluto che fosse un nome con libera interpretazione, quindi legato ad esempio alla “resurrezione spirituale” di un individuo, oppure al fatto di “rialzarsi” dopo aver toccato il fondo. In ogni caso, il concetto principale è connesso alla capacità degli esseri umani di trarre forza dai propri fallimenti. Per alcuni versi questa idea l’abbiamo vissuta non solo individualmente ma anche come band. Abbiamo messo in piedi questo progetto fondamentalmente come estranei (diciamo che da questo punto di vista i social ci hanno dato una bella spinta) e questo ci ha portato a conoscerci, a sbagliare tanto insieme e a capire dove potevamo migliorare. La formazione attuale appartiene al periodo della nostra prima release, dove Lorenzo ha sostituito Damiano, il nostro primo chitarrista, che ha composto insieme a noi tutto il primo EP. Ognuno di noi è cresciuto con degli ascolti a tratti diametralmente opposti ma complementari, dal punk rock al deathcore, dal punk-hardcore italiano anni 90′ al più recente metalcore; siamo riusciti tuttavia a far convergere il tutto in ciò che facciamo oggi, cercando sempre nuove ispirazioni, cercando sempre di sperimentare. L’identità della band quindi risulta molto chimerica per il semplice fatto che nella nostra diversità personale abbiamo creato una coscienza collettiva chiamata, appunto, Regrowth.

Nel corso degli anni, e nonostante la vostra giovanissima età, avete sempre scelto di abbracciare un’identità d.i.y. tipica della scena sarda della quale fate parte. Cosa vuol dire, per dei ragazzi ancora musicalmente “da svezzare” come voi, inserirsi in un contesto consolidato e dall’alto valore aggiunto come quello della vostra terra d’origine?

Dobbiamo essere sinceri, quando abbiamo iniziato alcune dinamiche erano completamente sconosciute alla maggior parte di noi, come ad esempio quella del do ityourself. Con il passare del tempo ci siamo accorti che si trattava di qualcosa che ci portavamo dietro in modo innato. “Connections”, il primo brano rilasciato su YouTube, è interamente prodotto home-made. Ci siamo rinchiusi in sala con quella poca strumentazione che avevamo, con delle nozioni tecniche pari praticamente a zero e abbiamo tirato fuori quello che ci sembrava un qualcosa di gigantesco. Anche per il comparto grafico la linea di pensiero è sempre stata la stessa. Tutto questo processo è partito per vari motivi: vuoi un po’ per gli scarsi mezzi economici a nostra disposizione, vuoi per il fatto che volevamo toccare con mano il nostro lavoro, prendendone i pro e i contro. Attualmente la nostra produzione audio/video e grafica è praticamente al 90% D.I.Y. e ora, a distanza di quattro anni da quella fatidica sessione di registrazione, abbiamo imparato ancora di più il significato del D.I.Y. e anche del suo valore. Siamo sempre stati ispirati da tantissimi eventi e/o persone che hanno portato ciò che è l’hardcore (e la sua mentalità) a Cagliari.  Noi semplicemente abbiamo osservato con ammirazione e forte curiosità cercando di imparare il più possibile. L’incredibile rispetto per persone e modi di essere e vivere la scena locale ci hanno ispirato quando avevamo solo 16-17 anni, divenendo di fatto il motore che ci ha spinto a provare a fare tutto ciò, perché alla fine dei conti, per noi è ancora tutto un esperimento anche dopo quattro anni.

Il vostro primo EP, intitolato “This Time I’m No Longer Alone”, dista ormai due anni. Cosa è cambiato – in negativo e in positivo – da allora? Quali esperienze, anche a livello live, vi hanno aiutato maggiormente nel vostro percorso di crescita umana e musicale?

Consideriamo “TTINLA” come una creatura caotica in gabbia. Quando l’abbiamo composto, due anni fa, c’era una formazione diversa e anche la writing-mind funzionava in modo completamente differente. È stato un EP bello incazzato e questa rabbia si riflette parecchio nei testi che principalmente parlavano di relazioni “interumane”. Da allora sono cambiate tante cose, siamo cresciuti e crediamo che, dovendo tirare le somme, ad oggi ci siano stati solo risvolti positivi. Negli ultimi due anni il nostro rapporto si è consolidato parecchio, complice il fatto di passare più tempo assieme anche al di fuori del contesto musicale. A seguito della pubblicazione di “TTINLA” abbiamo fatto una marea di live, i quali ci hanno portato anche a una consapevolezza maggiore rispetto la fiducia reciproca sia sopra che lontani dal palco. Tra i tanti fattori c’è sicuramente l’aver avuto la possibilità di conoscere tantissime realtà che parevano distanti anni luce da noi come, ad esempio, la scena hardcore romana e quella del nord Italia. Confrontarci con persone nuove ci ha dato una carica fortissima e inaspettata. Sono stati due anni di grossi cambiamenti personali per tutti: tante difficoltà, tanti dolori ma anche tantissime gioie.

“Lungs” è il titolo del vostro primo full lenght: dodici tracce che, a mio parere, riassumono alla perfezione la strada fatta fin’ora dai Regrowth, aggiungendo a essa una importante serie di dettagli più maturi e di qualità superiore. Partiamo dai dettagli, appunto: cosa significano per voi il titolo della release e la copertina che la accompagna?

Questo full lenght è un concentrato di dettagli. È ricco di easter eggs (citando il mondo dei videogiochi) e di piccoli accorgimenti che abbiamo seminato lungo le dodici tracce in modo che qualcuno li trovi, come se fosse una caccia al tesoro. La maggior parte di essi sono sopratutto legati al comparto grafico e appunto, come citato da te, anche ai testi. L’artwork e il concept del disco sono stati pensati interamente dal nostro Sebastian (chitarra, ndr) e dal nostro carissimo amico Michele Setti. Michele è un designer dalla mente brillante e una volta esposta la nostra idea ha tirato fuori questo incredibile disegno interamente fatto a mano in stile enciclopedia anatomica antica. Di pari passo va il titolo dell’album: “Lungs”. I polmoni , nei momenti di ansia e di stress vanno incontro a costrizione, da cui derivano affanno, scarsa ossigenazione, affaticamento fino allo svenimento. Con delle tecniche di respirazione controllata tuttavia si può uscire dal loop creato da questa condizione di sovraccarico mentale. Diciamo dunque che i polmoni sono “la causa di e la cura a…”. Non potevamo che scegliere questo immaginario per la storia che vogliamo raccontare.

L’ascolto di “Lungs” mi riporta alla mente band chiaramente influenti all’interno del melodic hardcore come Counterparts, No Bragging Rights, Set Sights e tante, tantissime altre. A quali album e artisti vi siete maggiormente avvicinati in fase di produzione e registrazione dei brani? Come si è sviluppato il vostro personale filone narrativo di scrittura, inserimento dei testi e “impacchettamento” finale del full lenght all’interno del Regrowth-pensiero?

Abbiamo buttato nel calderone una marea di ingredienti. Facendo un po’ di brainstorming ricordiamo che durante la fase di composizione uscimmo completamente fuori di testa per la release di “You’re Not You Anymore” dei Counterparts, la band che sicuramente incide maggiormente tra le nostre fonti di ispirazione. In parallelo nelle nostre playlist, in quel periodo, giravano brani di Hundredth, Empty Handed, Vices, Conveyer, Stick To Your Guns passando poi per Comeback Kid, Dead Swans, Gold Kids, More Than Life e tanti altri. Ci siamo confrontati e abbiamo approfondito tantissimi nostri gusti in comune e da questo lavoro collettivo sono arrivati tutti i brani nel giro di un paio di mesi, un’estate caldissima passata in saletta a scaricare riff su riff e breakdown su breakdown. Ci sono un paio di citazioni legate alla composizione di questo disco che rendono idea tantissimo del mood in fase compositiva : “bomba che roba è, i Millencolin con i breakdown?” , “fallo chirurgico ma romantico”, “non è abbastanza triste” e mille altre. I testi sono arrivati dopo, anch’essi tutti di botto come fossero un flusso di coscienza e una volta incastrati a livello di metrica vocale ci siamo detti “ok qui c’è una storia intera da raccontare”. La rabbia che ci ha un pochino segnato nel nostro esordio ha fatto spazio alla voglia di raccontare e sensibilizzare su tematiche molto importanti dal nostro punto di vista. “Lungs” dunque è questo, una fetta della nostra vita raccontata da una colonna sonora.

I testi in inglese sono una prerogativa per un genere di estremo interesse come l’hardcore, specificatamente nella sua variante melodica e più emotiva. Quali sono le tematiche che affrontate in “Lungs” e come ritenete di aver sviluppato anche questo dettaglio importantissimo nel corso della vostra (ancora) breve carriera?

I testi di “Lungs” trattano, come abbiamo precedentemente detto, di una tematica che ci sta particolarmente a cuore. Il disturbo d’ansia, insieme alla depressione, sono la causa di un numero incredibile di casi di suicidio e di condizione di patologia nei giovani e non solo. Sono patologie subdole e progressivamente invalidanti che possono portare le persone dapprima a negare o minimizzare il problema fino alla chiusura totale in se stessi. Senza un adeguato aiuto aumentano le possibilità che la persona compia gesti di autolesionismo o addirittura gesti più estremi. Nei testi viene raccontato un viaggio nella mente di una persona affetta da questo tipo di patologie e la narrazione si svolge di pari passo alla progressione del disturbo, come un giro sulle montagne russe. Dai primi sentori di disagio accompagnati dalla negazione fino alla consapevolezza e allo spiraglio di luce, perché comunque, fortunatamente, grazie alle persone che ci stanno attorno, grazie agli aiuti giusti e alle proprie passioni spesso si trova un’ancora di salvezza che ci riporti a galla. È un tema molto forte e ne siamo consapevoli, ma è anche un tema che veniva considerato tabù fino a poco tempo fa, quando spesso le persone con questo tipo di disturbo venivano assecondate, sminuite o talvolta emarginate. Crediamo dunque che parlare di questo argomento non sia mai abbastanza, che non debba mai passare in secondo piano e che le persone più fragili abbiano bisogno di una voce in più perché spesso la loro risulta oppressa. Speriamo dunque che questo disco possa veicolare un forte messaggio e, per colori i quali dovessero ritrovarsi nelle nostre parole, anche da propellente per una reazione o per una richiesta di aiuto.

Il futuro dei Regrowth è tutto da scrivere, come d’altronde per moltissime altre realtà rimaste bloccate in questo anno disgraziato. Dal vostro giovane – ma estremamente necessario – punto di vista, come vi piacerebbe veder rinascere la scena italiana? Cosa, ma soprattutto “come”, dovrebbe essere modificato e cosa, altresì, mantenuto?

Hai detto bene, questo 2020 è stato devastante. Avevamo una marea di progetti, tra cui quella di fare un bel tour in giro per l’Italia e iniziare a calcare qualche palco in Europa. Veder rimandate così tante date proprio nel momento in cui avremmo dovuto spingere la release di questo disco è un colpo al cuore ma ci siamo messi l’anima in pace, questo full-length lo porteremo comunque su molti palchi, prima o poi. Ricollegandoci alla tua domanda, queste date di cui abbiamo parlato sopra erano state piazzate grazie al lavoro e all’aiuto di amici sparsi in tutta la Penisola. La scena in Sardegna, dal nostro punto di vista, è un microambiente in collegamento con il resto d’Italia: ne è una chiarissima dimostrazione lo Strikedown Fest che ogni anno vede sul palco e tra il pubblico tantissime persone provenienti da tutto lo Stivale e non solo. Nel nostro piccolo, alcuni di noi hanno avuto la possibilità di organizzare eventi con band dal panorama nazionale in qualità di Overcore, un piccolo collettivo precedente a quello attuale, chiamato Deadship Crew. Senza contare la nostra amicizia con i ragazzi di Cagliari Supporting Hardcore, che ci hanno sempre spinto e dato la possibilità di conoscere situazioni interessantissime e a cui oramai siamo estremamente legati, come la sopraccitata scena hardcore romana. Vige da sempre il detto “tutto il mondo è paese”, no? Niente di più vero, ogni persona che abbiamo conosciuto grazie alla musica al di fuori della nostra felice isola aveva gli stessi dubbi, paure e perplessità e crediamo che questo ci accomuni senza alcuna distinzione. Dunque la nostra non sarà una critica alla scena ma alle sue possibilità. In un paese in cui una persona siciliana o lombarda deve spendere metà del suo umile stipendio per poter raggiungere l’amico dall’altra parte del Belpaese, esiste un problema di fondo gigantesco. E noi qui dentro soffriamo questo deficit al 100%: organizzare una trasferta risulta difficile e super dispendioso sia per noi che per eventuali organizzatori/promoter. È un problema che va oltre le dinamiche della scena, a monte rispetto a qualsiasi decisione e finché in questo paese vigerà la regola che la cultura – perché, per quanto non lo si voglia accettare, questa è cultura – debba andare in fondo alla lista delle cose importanti, non cambierà mai nulla. La voglia di fare c’è e c’è sempre stata, lo dimostrano la quantità di eventi e di festival in giro per l’Italia tutto l’anno. Parliamo di eventi la maggior parte delle volte D.I.Y tirati su dalle uniche risorse degli organizzatori, dei collettivi, dei locali che non ricevono alcun aiuto. Questo è un forte segnale che la musica hardcore in Italia è viva e funge ancora da voce della resistenza contro chi sembra la voglia senza alcun motivo affossare. Ci hanno sempre insegnato che il mondo è bello perché è vario, in tutte le sue sfumature. L’hardcore è una di queste e non la si potrà ignorare per sempre.

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