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The Waterboys – Good Luck, Seeker

2020 - Cooking Vinyl
rock / alternative

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Tracklist

1. The Soul Singer
2. (You’ve Got To) Kiss A Frog Or Two
3. Low Down In The Broom
4. Dennis Hopper
5. Freak Street
6. Sticky Fingers
7. Why Should I Love You
8. The Golden Work
9. My Wandering In The Weary Land
10. Postcard From The Celtic Dreamtime
11. Good Luck Seeker
12. Beauty In Repetition
13. Everchanging
14. The Land Of Sunset


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C’era un ragazzo che come me amava Lou Reed, Van Morrison e Patti Smith. Per quest’ultima scrisse la sua prima grande canzone (A Girl Called Johnny), da Lou prese in prestito un verso per dare il nome alla propria band, e a Van The Man rubò l’irish heartbeat e un pezzo (Sweet Thing) per farne una delle più emozionanti cover che a memoria d’uomo si ricordi.

Ovviamente, aveva anche altre passioni, che frullò insieme per tirarne fuori un’idea di “Big Music” che trovò nell’epica di “This Is The Sea” la sua sublimazione. Poi s’innamorò dell’Isola di Smeraldo, della gente di Dublino e dei poeti irlandesi, riscoprì il folk celtico e Hank Williams, e quando coi Waterboys scrisse il Blues del Pescatore, per un quarto d’ora fu più celebre degli U2. Poi, litigò con Euterpe, o forse era solo che la musa pensò d’aver ispirato abbastanza il buon Mike e prese a soffiare sull’anima di qualcun altro. Da lì in poi Mike Scott fece i conti con quello che restava della vecchia, magnifica, ossessione, riversandone quì e là frammenti in dischi ora modesti, ora più che dignitosi e qualche volta persino bellissimi (Modern Blues).

Oggi c’è questo “Good Luck, Seeker“, che porta in dote un vocabolario di stili e generi già indagati nel più discusso degli album recenti, “Out Of All This Blue“. Il primo lato è una sbornia di ottoni e rock’n’roll , funk ed elettronica, soul e rhythm and blues, il tutto molto funky but chic. C’è una cover di Kate Bush (Why I Should I Love You) cantata con l’entusiasmo di uno che ha appena scoperto il rock’n’roll, c’è un saluto su ritmo hip hop a Dennis Hopper, c’è la magniloquenza errebì di The Soul Singer, c’è una ballata in quota Paul Weller (Kiss A Frog Or Two) e l’odore del folk di Low Down In the Broom.

Nessuna di queste canzoni è realmente memorabile, ma nell’insieme funzionano, anche perché sui microfoni resta l’impronta del cuore di chi canta. Quando arriva il secondo lato, la sterzata fuori pista: Mike Scott smette di cantare e comincia a recitare sul tappeto di un’ elettronica oltretutto ormai fuori tempo massimo. È qui che le canzoni perdono il centro e le melodie, e il tono elegiaco che vorrebbero darsi sfuma in qualcosa che assomiglia più ad una noiosa supponenza.

Stai lì ad ascoltarle e aspetti un fremito, un guizzo, una scossa che però non arriva, e quando il disco esala la conclusiva The Land Of Sunset non sai se pensare ad una sfida, uno sfizio, o un capriccio. O, molto più realisticamente, al tentativo di dimostrare che oggi sul pianeta Waterboys c’è vita oltre le chitarre e il rock’n’roll. Per quello che mi riguarda,abbiamo un problema Mike….

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