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Uniform – Shame

2020 - Sacred Bones Records
noise rock / industrial metal

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Tracklist

1. Delco
2. The Shadow of God’s Hand
3. Life in Remission
4. Shame
5. All We’ve Ever Wanted
6. Dispatches from the Gutter
7. This Won’t End Well
8. I Am the Cancer


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Mi ha colpito di nuovo. Non sentivo niente, ma le luci erano ancora più abbaglianti. Erano solo una luce, bianchissima e dolorosa. Poi è arrivato il buio, in cui qualcosa di rosso si contorceva come un germe sotto un microscopio. E alla fine niente più bagliori né contorsioni, solo tenebre e vuoto e una folata di vento e un cadere come di grossi alberi.

Raymond Chandler, “Il grande sonno”

Sullo sfondo non la California, seppur decadente, in cui vive Philip Marlowe, bensì una New York i cui marciapiedi, gli angoli dei palazzi, da quelli inverosimilmente alti a quelli bassi in muratura, sono lame affilate, pronte a ferire e a portare via quel barlume di umanità rimasto, una New York che pare non esserci più, soffocata da gentrificazione e pulizia di facciata. Una fioca luce che si spegne anche negli Uniform, lasciando spazio alle tenebre, al vuoto e ad un rumore di grossi alberi che si abbattono sull’umanità.

Avevo il timore che “The Long Walk” segnasse la fine di un percorso ispirato per Ben Greenberg e Michael Berdan (e ora con il nuovo compagno di viaggio Mike Sharp), che avessero perso quella feroce attrattiva per una realtà da descrivere col sangue e lo smog che cade misto alla pioggia, su una città morente, avatar di un Mondo che corre incontro all’Apocalisse, poco biblica, estremamente reale. Constatare che non è così è stato un sollievo, ma riporta alla mente che i mostri sono reali, che il freddo che sentiamo risalire la spina dorsale è vivo, che l’umanità si batte e dibatte immersa fino al collo nella propria merda, che non vuole scrostarsela di dosso. Che la vergogna è reale. “Shame” è reale. Il dolore non è un’illusione, è vivida concretezza.

Abbracciare il rumore per soffocarlo, fino al punto di rottura in cui esso, in quanto creatura vivente, si sarebbe ribellato alla stretta mortale, nell’attimo prima della Fine inevitabile, caracollando sul suo aguzzino, ostracizzandone i movimenti, mostrandosi in tutta la sua magniloquenza. Il quarto album dei newyorkesi è una rinascita nel regno dei non-vivi, un luogo in cui il silenzio si piega così tanto su sé stesso da diventare grida assordanti. Finalmente consci della propria natura noise rock, gli Uniform la calzano come un pastrano marcio e la sfoggiano beffardi in faccia al resto degli Uomini, incedendo incessanti (Delco), nella tenebra che cela la velocità di zombie punk/crust che non esistono più, incrostati su muri lerci (Life In Remission) finché un gelido alito di morte meccanica, elettronica, industriale si palesa a bloccare il passaggio e la via di fuga (I Am The Cancer).

La voce non è altro che uno strumento di tortura, lancinante grido che si mescola nel vento delle chitarre (This Won’t End Well, All We’ve Ever Wanted), mentre il cielo cade verso le strade a tinte vermiglie, con la solita lentezza esasperata, ma l’attesa è un respiro kosmiche (Shame), quasi una tregua dalle scorribande dei mostri avviluppati in catene, sdrucite giacche ricoperte di toppe e sozze di liquidi sconosciuti, impugnanti mazze da baseball lucide come la Luna (Dispatches From The Gutter). Solo una tiepida illusione che il lucore in fondo al vicolo sia la Salvezza, e invece è un altro inferno. Forse uno ben peggiore.

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