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Back In Time

“Sea Change”, il viaggio nell’animo triste di Beck

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Nel 1994 il giovane Beck s’era preso la scena con la formidabile Loser e con versi tipo “…Mtv mi fa venire voglia di fumare crack…” .Era il messia biondo con le Converse che tutti aspettavano per la salvezza del rock’n’roll. Nell’album “Mellow Gold” ci trovavi tutto quello che era umanamente immaginabile: l’ hip-hop e il blues, il folk e i Public Enemy, Dylan e i Beastie Boys, le ballate e il punk, i Devo e le Violent Femmes. I critici si inventarono le sigle più strane per definire quella musica, e quandò arrivò “Odelay” si trovarono presto a corto di definizioni.

Le intuizioni dell’album precedente venivano portate su un  caledoiscopico ottovolante di campionamenti e rock’n’roll, party music ed elettronica, hip-hop e bossa nova, soul e hardcore. I più curiosi tra giovani della generazione X andarono alla scoperta di chi aveva preceduto l’avvento del loro nuovo totem, e gli ascoltatori più stagionati impararono ad ascoltare la musica da una prospettiva diversa. Per il disco successivo Beck decise di tornare sulla terra ed incise “Mutations“, un album di pop-rock dove la febbrile eccitazione dei lavori precedenti veniva sostituita da una sottile vena psichedelica.Giusto per non dare troppi riferimenti e assecondare la sua sfrenata ispirazione, Beck se ne uscì poi con la disco elettro funky/soul di “Midnite Vultures“, un disco che portava i nerds di tutto il mondo in discoteca.

Quando arrivò “Sea Change” in molti rimasero spiazzati: alcuni parlarono di capolavoro, altri di un lavoro di transizione, e tutti si chiesero cosa ci facesse il ragazzo in mezzo a quelle canzoni così mestamente crepuscolari. La realtà è che Beck stava sanguinando, e che quel tono misurato e nostalgico doveva sembrargli di parziale conforto. Sul fondo di queste nuove canzoni c’erano i frammenti di due relazioni finite: la prima, con la designer Leigh Limone, poi quella con Winona Ryder, un’adorabile spezzacuori che aveva recitato per Scorsese ed era stata la protagonista del cult movie “Giovani, carini e disoccupati”. Beck non confermò mai l’origine di quelle canzoni, ma c’erano troppe lacrime, allusioni e bugie disseminate per tutto l’album per credere davvero a qualcos’altro. Il tono generale era prevalentemente amaro e dimesso, e le canzoni venivano spesso attraversate da una sottile inquietudine. C’era in esse una tristezza da viaggio di ritorno, da fine estate, da giostre ferme. Titoli come Lonesome Tears o Lost Cause (un gioiello, al pari di Guess I’m Doin’ Fine) erano canzoni coraggiose perché mostravano al mondo la fragilità di un uomo che aveva perso  la sua reason to believe. 

Nigel Godrich, uomo di casa Radiohead, fece un lavoro straordinario alla produzione, alla grandeur degli archi pensò il padre stesso di Beck (David Campbell), e certe canzoni sembravano la versione aggiornata delle  ballate per le quali negli anni Settanta Neil Young era diventato famoso. Nel sontuoso space rock di The Golden Age, messo in apertura, Beck anticipava il viaggio introspettivo e la disillusione che avrebbero poi alimentato il resto della scaletta: “….these days I barely get by/I don’t even try, I don’t even try…”. Per la prima volta lo sguardo di Beck era rivolto dentro sè stesso, ed era lo stesso sguardo smarrito che aveva Bruce nel video di One Step Up. Qualcuno disse che ora anche Beck aveva il suo personale “Blood On The Tracks“, ma mentre Dylan non rinunciava a qualche stilettata di fiero risentimento, canzoni come End Of The Day o Already Dead mostravano più ferite che orgoglio. Nel gioco dei rimandi entrò Nick Drake , un pò per Round The Bend, un pò perchè in effetti il Principe dei cantautori depressi sembrava un nome tutelare molto attendibile per descrivere lo stile e il mood di certe canzoni.

Dopo “Sea Change” (che resta un grande album da qualsiasi prospettiva lo si guardi) niente fu più lo stesso per Beck.

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