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Back In Time

“Floral Green” dei Title Fight, ovvero l’arte di illudersi

Ma sì. Cosa sarebbe potuto accadere? E poi, sempre meglio che stare qui impantanati a rodersi le budella. Accade che sei un muro contro cui ogni volta ci sbatto fortissimo. E io non imparo mai. Non imparo che non si visitano i luoghi dove trovi solo macerie. Prendo ad esempio un pezzo come Like a Ritual che nasce nel segno dell’illusione come strumento di mistificazione: First time in a while that everything it’s fine…. Cosi la prima frase e poi, subito dopo, è la fiera del rimorso, del non detto, di pesi che continuano a sedimentarsi: “e la tua voce nel retro della mia testa, desiderando che le cose possano acquietarsi”. Anno dopo anno, ciclicamente, istanti di pace momentanei in uno scenario di eterno conflitto. Come un rituale, per l’appunto.

Nel decennio appena trascorso i Title Fight sono stati tra i maggiori alfieri della musica degli sconfitti. Il mondo poteva a fare a meno di loro nella stessa misura in cui poteva fare a meno dei loro fan. Perchè se vieni da un posto cattolico e conservatore come Kingston – Pennsylvania e vuoi fare punk rock allora ci sta che prendi tutto e vai a farti tour di dimensioni gigantesche, passando da un continente all’altro come principio di autodeterminazione (e di auto-analisi).

Arrivano in sordina. Sembrano i nuovi della classe, ma in realtà hanno l’attitudine di un gruppo senior. Tanti Ep macinati in 8 anni, con alcuni momenti altissimi (Introvert è una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi) prima di arrivare a un full-length solo nel 2011. “Shed” era un disco della madonna.  Acerbo e derivativo quanto volete, con qualche brano non troppo a fuoco, ma dotato di assoluta potenza espressiva. Una germinazione da cui fiorivano i primi petali della filosofia dei Title Fight: il rapporto tra scorrere del tempo e la necessità di trovare un equilibrio, anche a costo di illudersi o di prefigurare la morte come unica via d’uscita. “I’ve made hundreds of mistakes and peace with dying in my sleep” (Crescent Shaped Depression).

Di questa filosofia, un solo anno dopo, “Floral Green” diventa l’opera omnia, tanto per i Title Fight quanto per un’intera scena che – in un periodo che nel 2020 sembra già lontano – nell’ibridazione di sottocorrenti del punk ci sguazzava. Un pilastro assoluto: Un disco di punk rock evoluto e contaminato in cui i brani sono mediamente più strutturati rispetto a “Shed”, svuotando le contingenze emo e prendendo confidenza con un post-hardcore melodico con ritmiche più ricercate. Magari tutti i sophomore album fossero così oggi, e invece l’impressione è che “Floral Green” sia qualcosa di destinato a restare lì, cristallizzato in un 2012 musicale che non tornerà. 

I wish i could get over this feeling of slipping under…

Il disco si apre violentissimo. Sei già messo a nudo prima di essere sbattuto contro gli scogli. La mistificazione, l’illudersi, dicevamo all’inizio. Numb, But I Still Feel It ”su questo è una dichiarazione d’intenti nuda e cruda a partire dal titolo. Piede sull’accelleratore, voce graffiata e si parte al fulmicotone, con un inno punk rock sull’incapacità di superare i propri anatemi e, ad un’interpretazione più profonda, le proprie dipendenze. 

Leaf è un momento più drammatico e autoreferenziale, ma se possibile con ancora più volume. Si apre con un giro di note quasi stridulo, suonato interamente col bending sulla sesta corda, sotto un cumulo enorme di accordi in dinamica che girano intorno al Do. L’impotenza e la sfiducia verso se stessi all’interno del testo contrasta alla perfezione con la voce urlata di Ned Russin, che carica ed esaspera tutto all’inverosimile, con un apice riscontrabile nel secondo ritornello quando entra il Mi Minore.

Con Like a Ritual Secret Society i Title Fight giocano meno d’attacco, mostrando più consapevolezza anche nella scrittura di brani maggiormente strutturati. Della prima si è già detto all’inizio, forse primo vero momento emocore “classico” del disco. La seconda abbraccia soluzioni e ritmiche quasi vicine a un certo pop-punk californiano che quando voleva dare spessore ai brani decideva di giocarsi la carta dei power-chord suonati col basso. Head In The Ceiling Fan è invece la maturità vera dei Title Fight. Primo rallentamento ritmico del disco inteso anche come momento in cui si dilatano le chitarre, sperimentando con il flanger e i reverberi dando al brano più ambiente e più coda. Mood catatonico ma assolutamente a fuoco e in linea con il resto del disco. Un’elegia forse per la prima volta romantica, di un amore ovviamente in cui c’è solo da perdere (Glued my green eyes to your face/ I’m Blind). 

A livello concettuale invece il momento di maggiore crescita è Make You Cry, basata su un incedere tanto nervoso quanto velenoso. Si prova a ragionare a un livello di astrazione concettuale minore parlando del più concreto dei temi possibile: la morte. E lo si fa con attenzione a ogni possibile epifenomeno del caso: suicidio, perdita dei genitori, traumi, lapidi. 

C’è poi un po’ di ripetizione ma è tutto grasso che cola: Sympathy è un pezzo post-hardcore che sacrifica in parte la capacità melodica per giocare sul tiro e sulla distonia; Frown ritorna su lidi quasi revival punk (ovviamente lidi agitati) mentre Calloused altro non è che un altro fantastico momento, in cui si sfrutta a livello armonico le due voci di Jamie Rhoden e Ned Russin, tornando al tema centrale del disco: l’incapacità di dimenticare e l’illusione di stare bene (I’ll never forget what all these feelings meant). 

Sul finale le cose prendono una piega strana, quasi sinistra. Esempi di una maturità “alternative” che con il disco successivo (“Hyperview”) risulteranno compiuti solo in parte. Lefty è un altro momento di ricerca sonora, ancora più esacerbato di Head In The Ceiilng Fan. Sempre dilatato ma molto più spudoratamente gaze e feedback-oriented. Si chiude con “In between che toglie saturazione di gain attraverso l’uso del phaser all’interno di una canzone abbastanza mid-tempo. Atmosfere più cupe e testo più criptico fanno il resto. Semplicemente immenso.

Se ne esce tanto carichi quanto sconfitti dall’ascolto di “Floral Green”, in un bilanciamento tra umori contrapposti che non è mai un vero e proprio equilibrio. Perché dalla macerie si sfugge solo quando hai la forza per potere ricostruire. I Title Fight oggi non esistono più, ma quello che avevano da dire lo hanno detto nel migliore dei modi possibili: sgraziati e onesti. 

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