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Dynfari – Myrkurs Er þörf

2020 - Code666
black metal / post rock

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Tracklist

1. Dauðans dimmu dagar
2. Langar nætur (í botnlausum
spíralstiga)
3. Myrkurs er þörf
4. Ég fálma gegnum tómið
5. Svefnlag
6. Ég tortímdi sjálfum mér
7. Peripheral Dreams
8. Of Suicide And Redemption


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Ho sempre visto (e vissuto) il black metal come un racconto di terre, di luoghi e delle sensazioni con cui questi luoghi tendevano ad incatenare chiunque tentasse di scriverne, di raccontare ciò gli occhi sentivano, le mani vedevano, il cuore sussultava e feroce si lanciava in tachicardiche infiammate tirate volte a fare male. Non tutto il black metal è così, ma è una delle miriadi di sfaccettature che vanno a comporne il totale. 

Prendete i Dynfari, ad esempio. Quanto può essere difficile e al contempo estremamente facile descrivere una terra come l’Islanda? In pochi sono stati in grado di farlo in modo egregio stazionando nell’atmosfera black, come i Sólstafir, i Misþyrming e gli Zhrine. Il quartetto capitanato da Jóhann Örn e Jón Emil non è un’eccezione che conferma la regola, è la regola stessa. Nel freddo mortale di inverni senza fine sanno muoversi e ricavarne un calore tutto nuovo. Molto più che in passato.

Ancor più di tanti loro connazionali i Dynfari narrano il luogo, lo fanno in cascate sulfuree e abbracci scottanti, in mondo tutto tranne che meccanico, seguendo l’andare ondivago della propria natura. Onde su cui lasciarsi cullare, quelle di “Myrkurs er þörf“, che, come i fantasmi delle leggende islandesi, si sposta di parte in parte, trascinandosi dietro tutte le storie che trova sotto la dura roccia, tra fiordi e scogli, pianure e impervie salite. La tensione romantica di Peripheral Dreams sembra il cantico di un mare che sanguina, Of Suicide And Redemption illustra una strada che porta nel profondo, l’unico luogo dove il cuore può trovare la sua pace e alle lunghe stangate in blast beat vi è contrapposta una calma del tutto apparente.

Non ci sono mai picchi né discese a rotta di collo, è nella sicurezza che i Dynfari vogliono far riaffiorare tutto quel che stagna nel sottosuolo, non c’è uno schizzo di rabbia fuori posto, perché non ce n’è proprio traccia, nemmeno in quei momenti in cui dovrebbe comparire, un po’ come capitava coi Negura Bunget o con Panopticon. In quel punto di sospensione, sebbene violenta, lo stallo crea brani come l’irriducibile Langar nætur (í botnlausum spíralstiga), con le chitarre che spiccano il salto in solo lunghi e affascinanti, o nel rutilante post-rock della title track, di quello che si guarda alle spalle e ci vede le melodie del math novantiano (senza i tempi arcigni, sia chiaro) e perché no, nel paludoso incedere di Ég tortímdi sjálfum mér, che sembra non finire mai tanto la batteria tira indietro, portando con sé pura disperazione dai colori freddi.

Sia messo agli atti: i Dynfari non sono la mia creatura preferita della terra del ghiaccio, però hanno un fascino che altrove non si percepisce minimamente e non è concesso in alcun modo. E poi ve l’ho detto: raccontano qualcosa. Non basta a renderlo valido, in un mondo che non sa più cosa dire nel mare di parole sprecate che si trova ad affrontare?

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