Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Black Market Music”, o meglio lembi di gonne a cui aggrapparsi per non cadere

Amazon button

Appena vent’anni fa il mondo si preoccupava del Millenium Bug e il mercato discografico doveva vedersela con Napster. In Italia, il 6 febbraio, ci fu la prima domenica di chiusura al traffico dei centri storici e 18 milioni di italiani si ritrovarono a piedi, si diffonde in Uganda l’ebola, Bush viene eletto presidente degli Stati Uniti e io avevo appena tredici anni.

A tredici anni ci sono ben poche preoccupazioni a tenerti sveglio la notte, al massimo l’ombra degli alberi, proiettata, sulla parete della tua camera, dai lampioni della strada. Dei miei tredici anni ricordo poco, meglio così, perché da lì a seguire ho una scatola di ricordi costruiti sulla amarezza di aver perso quasi subito le illusioni di cui i miei coetanei avrebbero continuato a vivere per almeno altri cinque anni.

Cercavo di costruire nella mia stanza, che sembra restringersi in maniera inversamente proporzionale alla mia età e alla pesantezza dei miei pensieri, una tenda in cui disegnare il mio mondo nel quale sapevo che non sarebbe dovuta mancare mai la musica, avrei capito solo qualche anno dopo che la mia tenda era la musica. Avevo l’abitudine di mettermi davanti la radio, seduta a terra con le gambe incrociate, ad aspettare il momento giusto per premere REC e registrare sulla mia musicassetta logora l’ennesima canzone che mi piaceva e che poi ascoltavo la sera prima di dormire con il walkman e le cuffie con la spugna mangiucchiata. Da quelle casse sarà uscito almeno una volta un pezzo dei Placebo, prima che io potessi accorgermi di qualcosa. Ma come per le cose importanti, queste arrivano quando siamo davvero pronti a viverle, e non quando meno ce l’aspettiamo, perché ognuno vive nell’attesa di qualcosa, solo che ad alcuni l’attesa diventa realtà e ad altri cinismo.

I Placebo sono entrati realmente nelle mie cuffie, senza chiedere il permesso solo dopo aver visto la loro esibizione al Festival di Sanremo. Profanatori del sacrario della musica italiana, un Brian sfacciato che ha palesemente preso per il culo un pubblico, maleodorante di naftalina con bigiotteria pescata da vecchie scatole riposte in mansarda, che continuava a ripetergli in coro “scemo, buffone”, come se servisse a farlo smettere, come se lo capisse, come se loro fossero i giusti in un mondo dove, fuori dai ranghi del perbenismo e delle etichette stereotipate non sei nessuno.

I Placebo erano altro, erano un mondo che l’Ariston non avrebbe capito e viceversa, ma a me quella figura androgina, con il chiodo di pelle ed una sfacciataggine mista a dolcezza, piaceva, eccome se mi piaceva. Così con Special K avevo capito che nella tenda del mio mondo dovevano esserci i Placebo, ci vollero anni prima che io potessi ascoltare tutto “Black Market Music”, capirlo, scoprirlo e riascoltarlo ancora e altri tanti anni per decretarlo come la mia personale coperta di Linus.

Un album che per anni è vissuto nel confronto con i suoi due predecessori, “Placebo” e “Without You I’m Nothing”, è forse tra gli album che possono aver segnato una linea di mezzo, che non sempre comporta una evoluzione in meglio, ma che nonostante i confronti e i tentativi di farlo apparire meno di quello che è, “BMM” sarà, a detta di chi scrive, sempre una perla di rara bellezza. Di “BMM” mi piace tutto, dalla copertina che ritrae un vecchio carillon del ‘700, a contrasto con le immagini del booklet in cui compaiono circuiti “moderni”, come se quel disco potesse essere il tramite tra un suono semplice e pulito, riprodotto da una semplice leva, ad un suono “nuovo” come il nuovo millennio.

Io passerei le giornate, e non basterebbero neanche quelle di un anno come il 2020, ad argomentare il perché delle mie valutazioni, come sono arrivata a questa conclusione. Potrei prendere ogni minuto di questo album e metterlo sotto la lente di ingrandimento, ogni intro colpisce una sinapsi, come in una partita a flipper, gli impulsi partono, si diramano, si contraggono i muscoli e il sistema simpatico avvia la piloerezione, nota a tutti come pelle d’oca. Dalle cuffie al sistema nervoso, ai muscoli, al cuore, questo passaggio sempre, in ogni brano dei Placebo, come se Brian sapesse che, come tutte le dipendenze, se ti frega il cervello in realtà si è presa anche il cuore.

Dopotutto cosa ci si può aspettare da un Brian che porta con sé, da sempre, il mantello del poeta maledetto, a ragion veduta direi, se consideriamo cosa non ha vissuto, potremmo sicuramente affermare che forse gli è andata anche bene così. Un supereroe per i cuori un po’ a metà, per quelli che alla fine hanno sempre una luce malinconica negli occhi, per chi alle volte ci ha creduto, ma crederci non è stato abbastanza.

BMM” mi piace perché è un album in cui si sposta l’asticella più su, senza timore di strafare, e direi proprio che non c’era alcun motivo di temere una cosa del genere. I suoni sono lontani tra di loro, ma mescolati armoniosamente e non vedo come potesse essere diversamente, dato che quei suoni sono accompagnati dalla voce carezzevole e magnetica di Molko.

Se potessi riscrivere la tracklist vorrei che Blue American fosse l’ultima da ascoltare, seppur Peeping Tom non presenti nulla di meno. La vorrei per ultima perché è una ninna nanna dolcissima, una confessione, non ci sono più suoni ma ritorni di vibrazione che rendono questo brano l’emblema della certezza del vuoto, rappresentano il momento prima di dormire, in cui sei ad un passo dai sogni con il corpo nel presente. Amo ogni brano indistintamente, seppur sotto la mia tenda ci sono brani come Blind e Every You And Every Me che occupano posti di “rilievo”.

Dal 2001 in cui ho visto i Placebo in TV per la prima volta, sono passati 17 anni prima che io potessi vederli dal vivo! Anche in questo caso la vita mi ha dimostrato che le cose arrivano quando è il momento giusto. Avevo già provato ad andare ad un loro concerto nel 2014 a Roma, ma la vita (forse per merito di una delle mie poche scelte sensate) mi portò in Grecia. Poi due anni dopo, avevo il biglietto per il loro concerto al Mediolanum del 15 novembre 2016 ma io a quel concerto non ci sono mai andata. Ho sempre immaginato quel posto sugli spalti vuoto, ad aspettarmi e ad oggi, quel posto vuoto, è la prova concreta che se qualcosa non è destinato a te, in nessun modo troverà il modo di raggiungerti. Nel 2016, come per altre cose della mia vita di quel periodo, ho capito che per quanto possiamo desiderare qualcosa, alle volte quel desiderio rimane fermo a mezz’aria come un’immagine proiettata contro un muro, con un filtro giallognolo e sporco che poi con le prime luci del giorno svanisce.

I-days Giugno 2018. Mi ero trasferita a Milano da meno di 20 giorni e sapevo che quella città e quel concerto me li ero guadagnati nel silenzio del mio angolo di tenda da cui guardavo il mondo, così quando ho realizzato che avevo davanti la voce delle mie colonne sonore, ho capito che sì, le cose importanti arrivano solo quando sei pronto a viverle.

10 settembre 2020, mentre percorro le strade di Milano a testa basta, sforzandomi di non guardare il colore dei palazzi, i riflessi di cielo nelle vetrate, il sole che illumina il marmo del Duomo, così da non avere quei frammenti come ultimi ricordi di una città a cui devo tutto, nelle mie cuffie suona Bright Light e Brian mi ricorda che “No-one can take it away from me,No-one can tear it apart. Maybe ‘an elaborate fantasy, But it’s the perfect place to start. Cause a heart that hurts, Is a heart that works.”.

Dopo aver capito che i miei anni rilevanti sono quelli pari e che quello in corso me le sta suonando di santa ragione, io so che avrò sempre la mia tenda in cui poter costruire il mio mondo, quella tenda in cui i Placebo sono in subaffitto da diciannove anni.

I Placebo sono la gonna a cui mi aggrappo sempre quando so che la caduta è imminente e di cui “Black Market Music” è il lembo che non si strappa mai.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati