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“In The Court Of The Crimson King”: nelle stanze senza tempo del Re rosso sangue

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Se c’è un periodo – in epoca moderna – in grado di determinare in modo definitivo i successivi trent’anni dell’umanità, quello è il triennio 1967/69. La Summer of love, apparentemente infinita ma bruscamente interrotta dalle proteste sessantottine; poi tensioni sociali, morte e macerie da rimuovere tra le lacrime: è così che il mondo apre le porte agli anni ’70 e quel triennio ne sarà la chiave da inserire nella toppa.

L’ultimo miglio di quel terzetto, il 1969, è in particolare l’anno dove si concentra il maggior fermento in termini musicali. Non è più tempo di aprire spiragli, sono finiti i giorni dei pionieri: nel sessantanove si tirano le somme di tutto ciò che è stato, tracciando al contempo la strada che porta dritti alle soglie del duemila. “Tommy” dei The Who, 17 maggio, “Abbey Road” dei Beatles, 26 settembre, “Hot Rats” di Frank Zappa (coevo esatto di ciò di cui sto per parlarvi), sono solo alcuni esempi di ciò che è stato in grado di produrre l’ultimo respiro dei sixties.

Già dal 1967, nel Dorset – contea del sudovest inglese – un gruppo di amici è attivo nella composizione e incisione di uno sgangherato poppettino, basato su coretti uniti a parti strumentali lunghe e piuttosto complesse. Loro sono i fratelli Michael e Peter Giles, che insieme a Robert Fripp formano il trio omonimo: ma non funziona, bisogna trovare altre idee perché l’album “The Cheerful Insanity Of Giles, Giles & Fripp” è un totale flop di vendite e critica.

Così Fripp – un po’ chitarrista, un po’ cantante – ripensa alle sue serate al Marquee Club di Londra, un’atipica music hall dove si suona jazz, blues e skiffle. Gli tornano in mente quei musicisti così variegati, autori di sonorità tanto complesse quanto affascinanti e, chissà come, gli balza alla mente la musica classica. La domanda è: può il rock avere la stessa dignità artistica di una composizione di Beethoven, Mozart o Chopin?

La risposta è sì, a patto che tu abbia gli uomini in grado di riuscirci. E’ così che Robert torna dai fratelli Giles per proporre un cambio di rotta. Fuori uno dei due – la scelta ricadrà su Peter – dentro il suo amico Greg Lake e Ian McDonald, entrambi polistrumentisti e compositori, in grado di dare quella sferzata alla struttura musicale del gruppo, in modo da portarla sulla strada voluta dallo stesso Fripp. E i testi? Gli amici di Robert per caso scrivono anche le parole? No, almeno non quelle che intende lui.

Il nuovo corso deve avere una connotazione esistenzialista, i brani parleranno di dove sta andando a finire l’essere umano contemporaneo – ormai preda delle sue frenesie – probabilmente in contro a una morte atroce intesa non come fine fisica, ma di valori e d’importanza della figura umana sul pianeta terra. Per scrivere testi in grado di raccontare quest’allucinazione post-moderna c’è bisogno di una mente superiore.

Una mente superiore che ha un nome e un cognome: Peter Sinfield, di professione poeta. Non ha praticamente conosciuto suo padre, sua madre è un’attivista bisessuale che lo ha lasciato in tenera età nelle mani di una governante tedesca, un tempo circense presso The Flying Wallendas. Con una vita degna del copione di un film e uno straordinario talento nella scrittura di versi, è lui l’uomo giusto cui affidare i testi, così come sarà sua la paternità del nome del neonato gruppo: King Crimson, un sinonimo di Belzebù ma che significa anche uomo con un obiettivo.

Con la nuova formazione, i King Crimson si esibiscono per la prima volta il 9 aprile del 1969 allo Speakeasy Club di Londra. Pochi giorni dopo, la BBC li esorta a registrare quattro brani per un programma radiofonico, tutto ciò mentre Robert Fripp realizza il suo piccolo sogno di suonare sul palco dell’amato Marquee, per giunta a supporto degli Steppenwolf. A questo punto arriva il momento del grande salto: la band firma un contratto con la Island e viene subito mandata sul palco di Hyde Park, davanti a 300 mila persone, a suonare in appoggio ai Rolling Stones.

Le registrazioni del nuovo album si svolgono senza particolari intoppi tra i mesi di luglio e agosto di quell’anno, ai Wessex Sound Studios di Londra. In realtà alcuni contrattempi c’erano stati nelle precedenti sessioni di registrazione, in studi anche più rinomati dei Wessex, motivo per cui la comitiva aveva stabilito di comune accordo di operare in assoluta autonomia, compresa la grafica di copertina.

Sinfield ha un amico, Barry Godber, fa il programmatore ma con i disegni ci sa fare. Un giorno lo porta in studio e gli chiede di buttare giù qualche schizzo, giusto il tempo per la band di suonare un paio di pezzi. Barry inizia a studiare il contesto, analizzando testi, musica e messaggio che i Crimson vogliono trasmettere. Poi inizia ad elaborare, e il disegno che ne viene fuori è iconico, un manifesto in grado di rappresentare per sempre una generazione identificata in quello stato di alterazione mentale.

“È lui!”, esclama Fripp guardando la raffigurazione di quell’uomo a bocca aperta, così disturbante e allo stesso tempo pieno di fascino. Il faccione del protagonista di quella che diventerà la copertina dell’album porta dentro di sé tutte le caratteristiche del 21st Century Schizoid Man raccontato dai Crimson all’inizio del disco. Un pezzo fuori da ogni logica, che non segue un tempo preciso alternando slow-rock, jazz, accenti funk, psichedelia e delirio no-wave finale. Il sassofono tirato fino allo spasimo fa subito capire perché Robert Fripp abbia così fortemente voluto con sé il genio di Ian McDonald. Peccato però che Barry, la mente in grado di partorire il “mostro”, quell’album non lo stringerà mai tra le mani: qualche giorno dopo aver consegnato il disegno, a soli 24 anni, morirà stroncato da un infarto.

Lo schizoide di copertina – che nella foga dettata dalla sua frenesia è già proiettato al ventunesimo secolo, mentre il mondo non ha ancora salutato gli anni ’60 – si calma in I Talk To The Wind. Ma è una calma caratterizzata da solitudine e desolazione, tanto che al protagonista non resta che parlare al vento. Il finale scandito dall’assolo di flauto, ancora ad opera di Ian McDonald, è di certo uno dei passaggi più intensi della storia del rock. E’ notevole, nel passaggio dalla prima alla seconda traccia, il cambio di registro vocale operato da Greg Lake, bassista ma la cui voce così versatile e piena di sfumature lo rende il singer de facto. La calma diventa definitiva, così con il sottofondo di un mellotron (anch’esso suonato da McDonald) che pian piano si prende la scena, Sinfield scrive il suo Epitaph, rassegnato all’idea che il destino dell’umanità è in mano a degli stupidi.

Il lato B si apre con Moonchild, una suite divisa in due parti e dedicata allo sbarco dell’uomo sulla luna, avvenuto durante le registrazioni dell’album. Dopo una prima parte melodica (The Dream), la seconda (The Illusion) è un chiaro sconfinamento nella musica concreta. Il viaggio dello schizoide del futuro si chiude con l’ingresso alla corte del Re Cremisi: The Court Of The Crimson King dipinge il castello come un luogo fermo al medioevo, abitato da personaggi come la Strega di fuoco (the Firewitch) e la Regina nera (the Black Queen), degna alter ego del sovrano rosso sangue.

L’esperienza lasciata da “In The Court” è unica, irripetibile: mai prima c’era stato un esordio così folgorante nella storia del rock e andando avanti negli anni pochissimi artisti riusciranno a creare un’opera così completa, definitiva e seminale. Si parla spesso di questo disco come punto d’inizio dell’era progressive: sbagliato! “In The Court Of The Crimson King” non è un disco progressive, almeno non tipicamente, ammesso che il prog segua canoni standardizzati. Ci sono influenze di vari generi, ci sono i famigerati cambi di tempo, parliamo di un concept album composto per lo più da suite divise in più tempi. Su questo non c’è dubbio.

Ma c’è qualcosa che manda in orbita il tutto, ed è la vena cantautorale presente nei testi, una sorta di evoluzione musicale di un Bob Dylan o di un Leonard Cohen: il connubio tra la band e Pete Sinfield consente di guardare l’album da due punti di vista diametralmente opposti, vale a dire l’opera rock e il songwriting. L’universale e il personale si fondono e diventano tutt’uno nel breve volgere di 45 minuti scarsi.

Il concetto, purtroppo, è chiaro anche ai King Crimson stessi, i quali sentono che il percorso è compiuto fin dall’uscita dell’album. A marzo del 1970 iniziano le registrazioni di “In The Wake Of Poseidon”, il secondo lavoro in studio, ma Lake, Giles e McDonald saranno presenti nei credits solo come turnisti. Il bassista di Poole seguirà l’istinto, formando con Keith Emerson dei Nice e il giovane Carl Palmer il leggendario supergruppo omonimo. Giles e McDonald incideranno un disco avvalendosi della collaborazione alle tastiere di Steve Winwood, reduce da un buon successo con i Traffic, senza però ricevere buoni riscontri.

I superstiti, i soli Fripp e Sinfield, ripartiranno per una fase molto prolifica ma a tratti caotica. Dopo “In The Wake Of Poseidon” usciranno infatti “Lizard” (entrambi nel 1970), “Islands” (1971), “Larks’ Tongues In Aspic” (1973), “Starless And Bible Black” e “Red” (1974). Tutti dischi di altissimo livello, ma questa prima fase della band sarà caratterizzata anche da numerosi cambi di line up. La Corte del Re Cremisi, al contrario, resterà lì, edificata a beneficio di chiunque voglia abitare per un po’ nelle stanze dell’eternità.

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