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Corey Taylor – CMFT

2020 - Roadrunner Records
rock

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Tracklist

1. HWY 666
2. Black Eyes Blue
3. Samantha’s Gone
4. Meine Lux
5. Halfway Down
6. Silverfish
7. Kansas
8. Culture Head
9. Everybody Dies on My Birthday
10. The Maria Fire
11. Home
12. CMFT Must Be Stopped (feat. Tech N9ne & Kid Bookie)
13. European Tour Bus Bathroom Song


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A cavallo tra il 1999 e l’inizio del Nuovo Millennio il mondo scopriva l’immenso talento vocale di Corey Taylor, al timone di quella nave da guerra che erano gli Slipknot. Ugola abrasiva quanto cristallina e di impareggiabile bellezza quando non impegnata a fare tutto a brandelli, penna intelligente e ricercata.

Nel giro di pochi anni però ci si è resi conto (ovviamente mi riferisco a chiunque non sia un fanboy dei nove dell’Iowa) che forse non era lui il motore d’avanguardia dei progetti in cui era coinvolto anzi, forse era il più classico dei classici. Non mi riferisco unicamente agli Stone Sour, che nel giro di un disco hanno esaurito le idee andando a smuovere…beh…nulla perché il gruppo è l’emblema dell’immobilismo, ma anche con la band ammiraglia il ragazzone di Des Moines sembrava solo lo sbiadito ricordo che riluceva in “Slipknot” e “Iowa”. Niente di male, di cantonate se ne prendon tante e gli artisti in quanto tali a noi ascoltatori non devono proprio un accidente.

Resta che mettendosi in gioco, incidendo dischi, il rischio di sentire voci tanto belle gettarsi nel proverbiale cesso rimane altissimo. Corey non smette di dimostrarlo nemmeno oggi che si riscopre voglioso di intraprendere la carriera solista, per dare respiro a tutte quelle influenze che altrove non potrebbero trovare sbocco. Già da anni in casa Stone Sour il Nostro ribadiva il suo amore per il rock caciarone degli ’80 ed è esattamente in quella (triste e pessima) direzione che si muove anche “CMFT”, un titolo che non lascia spazio a chissà quali elucubrazioni.

CoreyMotherFuckingTaylor è qui alle prese con un album di una bruttezza sconfortante, senza stare a girarci troppo attorno. Tredici brani in cui a rincorrersi qua e là sono un hard rock piatto e telefonato, fatto di batterie che di energico hanno solo il suono, chitarre spompe, inserti white blues insopportabili, ballate tutte cuori e zucchero andato a male (nulla di male a scrivere d’amore, in tanti ci hanno dimostrato di poterlo fare bene, che so, tipo Jason Molina o Chris Cornell, ma non vorrei scomodare mostri troppo sacri per questo contesto), country roots di quart’ordine, qualche rimbalzo nel rap-metal che fu che nemmeno la presenza del peso massimo Tech N9ne può far nulla per salvare, e una marea di r’n’r infatuato AOR a stelle e strisce slavato imbottito di ritornelli che non fanno presa, passando inosservati se non proprio infastidendo (ad eccezione di quello di Kansas). Non bastano neppure le strizzate d’occhio al metal alternativo, che finisce per renderlo buono giusto per la presentazione di qualche wrestler che manco i peggiori Godsmack, a salvare una navicella che affonda in acque scure e reflue. La voce che ha fatto scuola qui si sposta di nuovo ai banchi davanti alla cattedra e anziché insegnare copia dal compagno più vicino, che, caso vuole, è l’ultimo della classe.

Non so cosa sia accaduto a Corey Taylor negli anni, è lecito credere che la sua vera natura sia proprio quella di un rocker dai modi smargiassi e che da dire non ha più molto ma che, pur di farlo, alza il volume al massimo, solo che i vicini non si scomodano più nemmeno a lamentarsene, tanto è innocuo ciò che esce dagli amplificatori. In tempi di elezioni statunitensi forse anche i democratici hanno bisogno di un loro Kid Rock.

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