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Back In Time

“Stories From The City, Stories From The Sea”, la tregua di Pj Harvey con se stessa

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Agli inizi degli anni Novanta il rock’n’roll trovò finalmente la sua nuova sacerdotessa: per “Dry“, l’esordio, Polly Jean Harvey aveva tirato fuori  l’armamentario da riot girl e in giacca di pelle e Doc Martens andò a prendersi le canzoni nelle acque torbide del blues e le asciugò soffiandoci sopra la rabbia del punk. “Dry” aveva i pezzi più eccitanti e scabrosi del momento e Polly Jean non perse l’occasione per costruirsi addosso un personaggio a metà tra una  versione femminile di Nick Cave e una Patti Smith più interessata alla lussuria che alla rivoluzione.

Nel girò di qualche mese divenne la ragazza più chiacchierata in città, e nonostante i suoi 23 anni capì presto che non le conveniva rimanere intrappolata in quel ruolo, e cominciò allora a cercare piccole ma significative opzioni laterali .Per il secondo album arruolò Steve Albini in regia: “Ride Of Me” era attraversato dagli echi orgasmici del precedente, ma aveva un suono più denso e le chitarre suonavano più grungy. Le canzoni apparivano aspre e potenti, e probabilmente c’era stato un più accorto lavoro in termini di songwriting, anche se Polly Jean cantava sempre sull’orlo di una crisi di nervi. I testi restavano provocatoriamente morbosi e carnali, ma ciò non impedì al disco di fare la voce grossa in classifica, e ormai era chiaro che la Harvey era pronta per lasciare le sue tracce di rossetto sui libri di storia.

E infatti, “To Bring You My Love” era uno di quei pochi dischi ancora capaci di dare un senso al rock’n’roll e a qualcuno parve la versione gotica del grunge: Polly Jean s’era messa il vestito di raso rosso da femme fatale e anche se le sue nuove canzoni apparivano languide e meno minacciose, in realtà nascosto dietro l’acquasantiera c’era sempre il diavolo. Il suono era più ricco di strumenti e dettagli, e la personalità di PJ assumeva contorni teatralmente dark e decadenti. Benedetto da Rolling Stone, USA Today , New York Times (e un altro pò di bella gente) come disco dell’anno, “To Bring You My Love” rimase ovviamente insuperabile persino per la stessa Polly Jean, che ormai era una specie di diva del rock’n’roll, con tanto di boa di piume, tute in lycra fucsia e mascara sbavato.

Il successivo “Is This Desire?” si  lasciava definitivamente dietro le spalle le nevrosi dei primi album, ma era ugualmente un disco carico di mistero ed inquietudine. PJ smetteva di cantare in prima persona per raccontare di altre donne, che alla fine sembravano però una proiezione della stessa autrice. L’elettricità delle chitarre si stemperava in un suono pìù paludoso e noir, e l’elettronica diventava la spina dorsale delle nuove murder ballads .Il successivo soggiorno, per sei mesi, a New York ,gli servì per mettere a confronto la vita del placido Dorset dal quale proveniva con il wild side della metropoli:  quando tornò a casa sembrava pure serenamente innamorata e tirò fuori l’album meno tormentato e straziato della sua giovane carriera.

Stories From The City, Stories From The Sea” era un album piuttosto melodico e brillante, con liriche più semplici e dirette che rimpiazzavano le allusioni e le metafore dei dischi precedenti. L’atmosfera generale sembrava una reazione all’infelicità dei momenti passati. Il suono grandiosamente rock’n’roll di Big Exit e di Good Fortune, messe all’inizio, sembrava uscire fuori da uno dei primi dischi dei Pretenders, e altrove c’erano languide ballate che svelavano il lato più romantico di PJ Harvey. In qualche maniera nell’album era capitato pure Thom Yorke dei Radiohead, che si prendeva il microfono per la lussureggiante This Mess We’re In e si spendeva ai cori in un altro paio di canzoni. I nervi scoperti delle frustazioni urlate nei dischi precedenti erano ora ammantati da una patina di apparente tranquillità e ne venivano fuori canzoni intime e sussurate (Horses In My Dreams), persino riflessive (A Place Called Home) o appena più tormentate (One Line), e solo poche volte PJ perdeva veramente il controllo (Kamikaze e This Is Love). L’album si chiudeva con la spiazzante bizzarrìa lounge di We Float, un pezzo che sembrava arrivare da un altro pianeta rispetto a quanto fatto da PJ fino a quel momento.

L’album ebbe un grande successo, portandosi a casa una vagonata di titoli e riconoscimenti, a cominciare dall’inglese Mercury Prize. Il giorno della premiazione si svolse l’11 settembre 2001 a Londra, mentre Polly Jean si trovava in una stanza d’albergo a Washington DC.

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