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“Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols”: piccole luci di libertà selvaggia

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Quando sentii per la prima volta il ruggito di John Lydon “Right!! nooow ha, ha, ha, ha, ha” che apre Anarchy In The UK , avevo poco più che 13 anni, e l’impressione era come se quella band avesse preso il rock’n roll, che conoscevo all’ora, e lo avesse tritato mettendolo sotto con un tagliaerba per poi dissacrarlo e sfregiarlo. Erano i Sex Pistols, quelli che investirono la vecchia Albione, e poi il mondo intero, come una locomotiva a tutta velocità. Il rock dopo di loro non sarebbe più stato lo stesso. Infatti, in America i Ramones avevano acceso la miccia di quel candelotto di dinamite osceno e distorto chiamato punk e i Pistols furono il detonatore nel vecchio continente.

Tra le loro fila militavano soggetti che definirli “artisti per caso” non sarebbe certo ingeneroso. Infatti, la band solo nei primi periodi poté contare sul basso di Glen Matlock e, escludendo la chitarra di Steve Jones e la batteria di Paul Cook, la buon anima di Sid non brillava certo per competenza tecnica con il suo basso. E che dire del grande mattatore e leader della band John Lydon, alias Johnny Rotten, personaggio caustico, marcio, non solo nel nome d’arte, irriverente, ma di certo non detentore di grandi doti canore. Ma tutto ciò non importava e non importa ancora oggi, il punk non è tecnica, non è virtuosismi o grandi melodie.

Quello che le pistole del sesso hanno sparato violentemente nella musica è stata pura energia antisistemica. Il pubblico britannico era pronto ad accogliere tutto questo, anzi, non vedeva l’ora che qualcosa di simile arrivasse. L’Inghilterra era preda di un periodo difficile, stretta nella morsa della crisi economica, sociale, politica e culturale e severamente imbrigliata dalla figura della leader Margaret Thatcher. Nelle strade le proteste contro il sistema governativo non mancavano e così, in questo panorama storico, la musica dei Pistols arrivò come un inno al caos e all’anarchia, al rifiuto di tutto ciò che la società civile rappresentava.

È proprio con un inno all’anarchia che si apre l’album capolavoro “Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols” (1977). Anarchy In The UK diventò in poco tempo il manifesto della musica e dell’intero movimento punk, e così è considerata ancora oggi. Ogni singola parola che Rotten vomita fuori dalla sua bocca, con quella voce sgraziata e starnazzante, risuona come una provocazione, o meglio, come un insulto verso tutto e tutti. Bodies si presenta come una canzone su un aborto sanguinolento, in realtà da questa canzone esce tutta la rabbia isterica di un popolo che vedeva l’establishment del proprio paese stringere la morsa ad oltranza sulle loro vite e sul loro futuro. EMI è un pezzo selvaggio e provocatorio scritto contro l’omonima casa discografica che aveva buttato fuori a calci la band per cattiva pubblicità, dopo innumerevoli episodi nei quali i Pistols si erano resi protagonisti di condotte reputate disdicevoli ed oscene.

Altro inno assoluto del punk britannico è la famigerata God Save The Queen, irriverente critica alla monarchia e al sistema governativo di quel periodo. Due parole in particolare aleggiano in questo brano, “No Future!”: l’idea che per le nuove generazioni non ci fosse un futuro se le cose sarebbero rimaste tali e che non ci fosse speranza se non quella di essere incazzati e selvaggi per le strade delle città. Mentre Joe Strummer con i suoi The Clash portava un’idea di rivoluzione più progressista all’insegna del monito “The Future Is Unwritten”, Rotten e compagni assumono un atteggiamento totalmente nichilista, così come il loro stile e la loro immagine.

È proprio questa la cruda realtà che si cela dietro a questo disco e dietro a brani come Holiday In The Sun, No Feelings o Pretty Vacant. In Problems, lo spiritato frontman rigurgita il ritornello “il problema sei tu!” ed è proprio questo che i Sex Pistols rappresentavano e rappresentano ancora oggi: parole di fuoco che scandiscono l’immagine di una gioventù stanca, sporca con vestiti laceri e capelli dritti, disgustata e incurante delle regole del buono costume e della società civile, pronta a sputarti in faccia e mandarti a fanculo se hai qualcosa da obbiettare.

Sfortunatamente, il giovane bassista Sid Vicious sembrava aver preso troppo alla lettera questo modus vivendi e, preda del suo nichilismo, ma più precisamente delle cattive compagnie e soprattutto dell’eroina, si spense il 2 febbraio de 1979, a neanche ventidue anni. Questo giovane ragazzo scapestrato è divenuto un simbolo nella storia della musica punk, non tanto per essere stato il mediocre bassista dei Pistols, ma perché il suo modo di stare sul palco, e forse anche il suo modo di vivere, era diventato il manifesto della selvaggia autodistruzione dello stile punk.

Questa band è durata poco, molto poco, tanto che “Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols” è stato l’unico album che ha visto la luce. Con la morte di Sid e la battaglia legale tra Johnny e il manager della band Malcolm McLaren la band si sciolse definitivamente nel 1979. Lascio a voi dire se sia stato un bene o un male, personalmente guardo quello che i Sex Pistols ci hanno lasciato: ancora oggi quando riascolto questo disco, si riaccendono tante piccole luci di libertà selvaggia ed è bello risentire quella vena che pompa rabbia e disprezzo verso il cosiddetto mondo civile.

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