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Interviste

Contemplare i confini della Nera Prigione di Ferro: intervista a Massimo Pupillo

(c) Marco Portello

In occasione dell’uscita del suo album solista intitolato “The Black Iron Prison” (qui la nostra recensione) abbiamo scambiato parole e pensieri col suo creatore, Massimo Pupillo, bassista degli Zu e forgiatore di musica dai molteplici nomi (Pleiades, Laniakea, URUK e molti altri). Tra dedali, solitudine, Philip K. Dick, futuro e alchimia.

In un momento in cui il mondo teme più di qualsiasi altra cosa l’isolamento, forse troppo abituato all’incessante vociare (seppur virtuale) tu hai scelto di registrare “The Black Iron Prison” in totale solitudine. Cosa ti ha portato a questa scelta e cosa ti ha lasciato, umanamente parlando?

Parto dalla prima parte della tua domanda. Isolamento e solitudine sono due condizioni molto diverse. Una, l’isolamento, è forzata, mentre l’ altra, la solitudine, è una scelta. L’eremita della immagine di copertina è l’alchimista che contempla la propria Nigredo, la fase della notte oscura dell’anima. Questa è una condizione che è assolutamente necessaria, la discesa agli inferi. Il confronto con il Male, personale e collettivo. L’isolamento per me tende solo a distanziarci l’un l’altro, ad insospettirci gli uni degli altri, ed in ultima analisi, a disumanizzarci. La solitudine, come scelta, almeno per un periodo di tempo, ti porta a diventare invece sempre più umano e vulnerabile. Poiché l’album è partito da questo tema, il metodo adottato nel lavoro doveva essere lo stesso. Non avere nessuna interazione umana, sprofondare in uno spazio da cui non torni a galla neanche magari per un tè in compagnia. A volte ci sono delle missioni che vanno affrontate in solitaria.

Come hai impostato il lavoro in studio? Mi sembra che i brani non siano in free form ma che, in fondo, seguano uno schema che pian piano si sviluppa fino a sembrare improvvisato.

Ho lavorato come ti dicevo in totale solitudine, per la prima volta completamente da solo in uno studio di registrazione, senza neanche un tecnico del suono al mixer. Quindi ho lavorato con delle mappe, dei vettori, e delle immagini che scaturivano, come sto facendo come metodo almeno da “Jhator” degli Zu in poi. Non è assolutamente free form, anche se non è facile aggrapparsi ad una struttura solida apparente, perché tutto è composto e fluido allo stesso tempo. Lascio che siano le immagini stesse, in questo caso in forma di suono, ad apparire e a dettarmi il lavoro.

Il titolo dell’album fa riferimento a “Valis” di Dick. Trovo incredibile come ogni sua storia si riverberi nella Storia, che la sua fantascienza preconizzasse ciò a cui sarebbe andata incontro l’umanità (forse aiutato dal fatto che spesso gli esseri umani reiterino i propri errori) e che ancora oggi i suoi concetti, le sue paure e i fantasmi della sua vita siano non solo presenti, ma anche futuribili. Ad esempio io rivedo negli atteggiamenti social un parallelismo con la scramble suit di Bob Arctor di “Un oscuro scrutare”, ci si confonde gli uni con gli altri per infiltrarci in qualcosa che potrebbe divorarci. Perché hai scelto proprio l’idea della Nera Prigione di Ferro e come, a tuo avviso, esso può essere vissuto, come esperienza, oggi?

Credo che la cosa incredibile di Dick sia la descrizione in forma di science fiction di cose che lui vedeva nella realtà, e nella mia percezione lui è un profeta, oltre che un maestro. Sprofondare nell’universo dickiano significa dover reimparare tutto, perché ogni cosa, evento, persona, accadimento, tutto, potrebbe essere esattamente il contrario di ciò che sembra. In questo senso la sua attualità è sconvolgente e l’immagine profondamente gnostica della Nera Prigione Di Ferro è quella di un sistema di controllo sociale onnipervasivo, che entra ovunque, ed è collegato a qualcosa che lui ha chiamato Valis che è un vasto sistema di intelligenza artificiale. Se mi chiedi come può essere vissuto oggi, ti rispondo: come può NON essere vissuto oggi?

Percepisco in ciò che accade in “The Black Iron Prison” una certa tensione, un sentimento irrisolto, che si allunga nello spazio e nel tempo cercando di raggiungere qualcosa. È così? Nel caso, a cosa tende ciò che componi e suoni?

Finché siamo vivi in questo piano ci saranno sempre tensioni e sentimenti irrisolti. Una soluzione lascia appena un attimo di respiro fino ad un nuovo enigma. L’unica speranza è quella di andare avanti e non tornare alla casella numero zero del gioco dell’oca. Con gli Zu abbiamo avuto per anni come simbolo il labirinto di Chartres che rappresenta la stessa identica cosa, un lungo e tortuoso cammino verso il centro, dove poi, in quella storia, incontri il minotauro. E anche lì intimamente, ho sempre pensato che l’unica definizione possibile fosse di musica vettoriale. Non ho una risposta razionale da darti al cosa tende. Il suono ha la caratteristica di bypassare la corteccia cerebrale, e, almeno nel mio sentire, riesce a parlare dell’indicibile.

Una delle cose che mi ha più colpito è la differenza che, almeno secondo me, intercorre tra la copertina del disco e i suoi contenuti. Hai scelto una rappresentazione meditativa risalente al 1600, mentre la musica pare muoversi in certi meandri che mi riportano alla mente alcune colonne sonore sci-fi. Cosa pensi che leghi le due cose? C’è qualcosa nello specifico che pensi unisca passato e futuro?

L’immagine dichiara uno stato di contemplazione della Nigredo alchemica come ti dicevo prima: la necessità iniziatica di una disgregazione della psiche, e di tutte le nostre certezze. Ma solo attraverso quella fase contemplerai i confini della Nera Prigione Di Ferro. Il primo lato annuncia questa entrata in una dimensione altra. I muri ed i confini sono usciti fuori nel secondo lato dell’album, come onde di suono che sbattono contro superfici invisibili, o almeno è così che li vedevo quando ho scritto l’album. E’ chiaro che si parla di un universo intra-psichico e quindi in esso passato e futuro sono collegati, interdipendenti, e si nutrono l’uno nell’altro.

Sei sempre stato molto prolifico e negli ultimi anni hai dato vita a parecchi progetti interessanti, tra cui la collaborazione con Pilia, Laniakea, URUK, Pleiades e ora “The Black Iron Prison”. C’è un fil rouge che lega queste tue esperienze o cosa pensi le accomuni?

Il filo rosso che le lega è un processo interiore che per me è legato al mondo del suono, suono che si è liquefatto e poi di nuovo coagulato per poter veicolare nuove visioni e nuove storie. Ognuno di questi progetti è stato una tappa di questo percorso. Quanto all’essere prolifico, per me è strettamente legato all’aver abdicato al controllo su dove dovrebbe andare un lavoro.

Concludo permettendomi di riprendere una tua risposta all’intervista che ti abbiam fatto lo scorso in occasione dell’uscita di “Dark Night Mother”. Dicevi: “fai qualcosa che per te è necessario, qualcosa che se non la facessi, staresti male.” C’è qualcosa che ancora non hai fatto, artisticamente parlando, un luogo non esplorato, che senti sia necessario da esplorare?

La necessità di cui parlavo era proprio quella legata all’urgenza e al fuoco interiore: quando ci hanno chiusi in casa a marzo 2020, la mia reazione istintiva è stata quella di mettermi a scrivere e ho preso a modello la frase di Krishna ad Arjuna nella Bhagavad Gita: agire per la gioia intrinseca nell’azione, e non per i suoi frutti. In un momento in cui non sai neanche se nessuno mai ascolterà quello che stai scrivendo o se ti sarà mai possibile presentarlo dal vivo (e di fatto su questo siamo ancora bloccati), la necessità di veicolare quello che provavo in forma di suono mi ha aiutato a restare il più possibile sano, e di fatto ora mi ritrovo con una grande quantità di materiale che ancora non so bene che destinazione avrà. Per la domanda vera e propria, posso dirti che le nuove porte si aprono solo – ed eventualmente – dopo aver esplorato le stanze che stai scoprendo. Come disse John Coltrane ci sono sempre nuovi suoni da trovare e nuove storie da raccontare. Si presentano da sole, fanno parte di un attività della psiche che è fuori dal controllo cosciente, come i sogni, o le mitologie. O almeno è così che io le vivo.

Grazie mille per la tua disponibilità, Massimo.

Grazie mille a te per le belle domande.

Massimo Pupillo

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