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“Give’ Em Enough Rope”, la rincorsa esplosiva dei Clash

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Quando “Give ‘Em Enough Rope” venne messo sul mercato, per le strade di Londra vibrava ancora l’eco delle pistolettate punk dell’album d’esordio col quale avevano assaltato la diligenza. Nel 1977 “The Clash” era stato una tempesta che aveva riportato il rock’n’roll tra la gente, aveva dato voce alla rabbia e alla disperazione di quella working class sul cui collo stringevano forte le mani sporche del capitalismo borghese. I figli di quel proletariato non faticarono a riconoscersi in quelle canzoni che invitavano al caos e alla rivolta e che sembravano annunciare l’avvento della definitiva rivoluzione socialista.

Erano canzoni selvatiche ed eccitanti, potenti e rabbiose, e i Clash stavano coniando una nuovo e spregiudicato linguaggio musicale, con i piedi nel pragmatismo spiccio di Sex Pistols e Ramones ma lo sguardo rivolto verso un futuro di suoni globali e una  prospettiva cosmopolita del rock’n’roll. Era chiaro che in quei tre accordi  di una canzone  ci fossero il segno rabbioso dei tempi e insieme la  demitizzazione di tutte quelle inutili e patetiche rockstar imbottite di cocaina che da lì in poi avrebbero fatto bene a preoccuparsi  visto che in città era arrivata una nuova gang di rude boys pronti a mettere il mondo sottosopra.

Prima di incidere “Give ‘Em Enough Rope” i Clash arruolarono un nuovo batterista, Topper Headon, un giovane scozzese con la passione per il jazz e con qualche vizio di troppo, che però suonava la batteria come non si sentiva dai tempi di Keith Moon degli Who. L’altro della sezione ritmica era Paul Simonon, la figura più stilosa e cool del gruppo, un teppistapassato poi alla storia come quello che spaccava il basso nell’immagine di copertina di “London Calling“.

Per la produzione di “Give ‘Em Enough Rope” i Clash si fecero imporre come produttore Sandy Pearlman, un tizio che aveva lavorato con i Blue Öyster Cult e al quale la casa discografica chiese di lavorare sugli  spigoli vivi e addomesticare il suono volgare e da buona la prima che aveva infiammato l’esordio. Doveva essere la chiave per entrare nel mercato americano, ma alla fine in Inghilterra fece incazzare i duri e puri del movimento e pure qualche critico  non la prese per niente bene. Joe Strummer e Mick Jones avevano ancora scritto grandi canzoni punk da combattimento, ma avevano un suono che ne sperperava la grandezza, dissero. I Clash continuavano a parlare la lingua della strada, magari avevano un leggero accento yankee, ma restavano i marxisti romantici dei primi giorni, e la copertina del disco parlava chiaro: sotto lo sguardo fiero di un soldato della Repubblica Popolare Cinese, due avvoltoi banchettavano sul cadavere di un cowboy americano, simbolo dell’imperialismo occidentale.

Forse, più realisticamente, “Give ‘Em Enough Rope” era un ottimo album di rock’n’roll, ma aveva il torto di arrivare dopo la dinamite dell’esordio, rispetto al quale sembrava una semplice molotov. Ad ogni modo, Joe Strummer si confermò il più grande poeta ribelle del punk e Mick Jones s’era comprato una nuova Gibson Les Paul per suonare le nuove canzoni come se fosse questione di vita o di morte. L’album iniziava col racconto amaro del viaggio nella Giamaica reggae di Safe European Home e ripartiva con l’attacco frontale a tempo di marcia ai fascisti del British National Front (English Civil War).

Poi arrivava Tommy Gun, il pezzo più brillante ed irresistibile  del lotto, un emozionante power punk che chiariva la posizione del gruppo sul terrorismo. Stay Free era quasi commovente, con la voce da adolescente ribelle di Mick Jones alle prese con una storia d’amicizia ai tempi del punk. L’orizzonte s’allargava col pianoforte honky tonk di Julie’s Been Working For The Drug Squad, una saltellante rock song che raccontava l’incredibile vicenda  dello smantellamento di una delle maggiori attività di produzione di LSD della storia avvenuta in un piccolo paesino del Galles nel marzo del ’77.

Non c’era dubbio sul fatto che Guns Of The Roof dovesse qualcosa agli Who di I Can’t Explain, così come All The Young Punks saldava il debito di Mick Jones coi Mott The Hopple e più in generale col glam rock. A qualcuno sembrò un passo indietro, invece i Clash avevano preso la rincorsa per arrivare alla gloria di “London Calling“, l’album della vita. Anche della nostra.

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