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Retrospettive

Vedi De Crescenzo e poi muori

Interno giorno; una donna si avvicina al marito che si sta radendo nel bagno di casa. La donna scandisce la seguente frase: “Guarda che io me ne vado”. Il marito, più interessato alla cura della sua persona e ancora con la schiuma in faccia, risponde sovrappensiero: “Guarda se mi aspetti un momento scendo con te”. Piccolo dettaglio, la donna ha una valigia appoggiata al suo fianco e sta per lasciare la casa nella meno classica delle situazioni di abbandono del tetto coniugale.

Seconda scena, sempre interno ma di sera, un uomo appena insignito di un premio letterario si siede e sorridendo descrive il suo precedente mestiere. Un lavoro molto differente rispetto a quello per il quale lo stanno celebrando e che di aulico aveva poco o nulla. Per la precisione, racconta di quando doveva sedersi negli uffici altrui e di come, in presenza di qualunque collega, sia superiore che subalterno, fosse portato a soffermarsi sul numero di brocche e bicchieri presenti sul tavolo dell’ufficio, quasi un monito fantozziano alla gerarchia aziendale scandita da arredamenti sempre più ricchi e articolati a seconda del ruolo occupato. Per la cronaca: l’uomo era arrivato a possedere, quale corredo lavorativo, solo due bicchieri e una brocca.

Terza scena, interno sera. Alle votazioni per un premio letterario, dopo una montagna di voti a proprio favore, uno scrittore vede la propria marcia vittoriosa bloccata da un voto per un contendente che immediatamente viene salutato con numerosi applausi. Al voto seguente viene nuovamente votato nel più completo silenzio, l’uomo coglie l’occasione per afferrare un microfono e scusarsi pubblicamente: “Scusate se ho strappato un voto a Piero Angela!!”.

Cos’hanno in comune questi tre eventi non necessariamente contigui nel tempo? Ovviamente la figura di Luciano De Crescenzo, nato ingegnere, venerato con rispetto da coloro che all’epoca non sapevano cosa fosse un computer e che per questo era visto come una figura fra il mitico, il mistico e il mitologico e ancor più ammirato da chi lo ha conosciuto inizialmente grazie al suo alter ego letterario: Il professore di filosofia in pensione Gennaro Bellavista, scrutatore della vita del proprio condominio ed elargitore di massime filosofiche pronunciate con quel malinconico disincanto dato dalla capacità di dire cose difficili ma comprensibili usando le armi a propria disposizione ovvero una cultura oceanica frutto di anni di studio che, nel caso del protagonista, non si limitarono esclusivamente alla laurea e al lavoro d’ingegnere. Sì, perché De Crescenzo, scambiato per anni per un filosofo, divulgatore o per un semplice umorista, era curiosamente nato ingegnere in un epoca nella quale le difficoltà di studio e di alfabetizzazione delle masse erano numerose. 

Una laurea fortemente voluta dalla famiglia proprietaria di un negozio d’abbigliamento nel cuore di Napoli, per la precisione una guanteria in piazza dei martiri. Una famiglia che s’era piegata al commercio pur non amandolo, prima con il nonno, pittore noto e quotato, e poi con il padre che ebbe in sposa la moglie solamente in tarda età e Luciano solamente all’alba dei cinquant’anni, ma che continuò a inseguire le proprie velleità artistiche che vennero ovviamente tramandate al secondo genito. Furono questi i prodromi che permisero al giovane De Crescenzo di generare in seguito quelle storie che per lungo tempo ha saputo raccontare, storie materializzatesi sullo sfondo di una Napoli che ormai non c’è più ma che è sempre presente nell’immaginario collettivo di chi la sa cercare attraverso gli sguardi della gente comune. Storie che saccheggiarono ampiamente la sua vita di sfollato a Monte Cassino, quella che il padre, certo della sua inespugnabilità, definiva “il ventre di vacca” e che invece vide la numerosa famiglia De Crescenzo sfuggire a morte certa solamente per miracolo. Tornato a Napoli, la sua Napoli della quale sentiva nostalgia sempre, anche quando era presente, la famiglia De Crescenzo e il giovane Luciano rimisero nuovamente piede nella loro vecchia abitazione ormai quasi del tutto rasa al suolo dai bombardamenti.

Luciano De Crescenzo

Fu poi solamente nel 1960, dopo una vita a caccia di una professione stabile, e grazie a una raccomandazione, che il trentaduenne Ingegnere, con tanto di Lode accademica, prese servizio presso la prima sede dell’IBM aperta a Napoli e che, come ricordava in seguito lo stesso De Crescenzo, poteva vantare in quel momento una semplice vetrina con un dipendente, ovvero lui medesimo, in perenne attesa dietro al banco come se si trattasse di un fornaio. Gli anni passati a vendere computer grandi quanto un edificio e software alle grandi aziende e alle banche e a persone pronte ad accoglierlo come uno sciamano o come un conquistadores che portava perline agli indios, il tutto non senza la solita dose di umorismo che lo vedeva ricordare come a ogni sua promozione vi fosse sempre una gerarchia ancor più veloce a frapporre fra lui e la vetta, ovvero il ruolo di direttore di filiale, una nuova figura prontamente inventata per impedirgli di toccare il Graal, non avevano intaccato il desiderio dell’ingegner De Crescenzo di fare altro per vivere, forse deluso dal mondo del commercio, già ampiamente vissuto in famiglia, De Crescenzo decise quindi di mettere finalmente a frutto le sue conoscenze riguardo le sue esperienze e parlando della cosa che da sempre conosceva meglio, ovvero Napoli; nacque così il suo libro più celebre “Così parlò Bellavista”, libro che ebbe una strana gestazione perché pensato mentre era rimasto bloccato in ascensore assieme a un editor della Mondadori che lo spronò a risolvere i suoi problemi economici magari prendendo in mano carta e penna e scrivendo un libro.

Detto fatto, e Così Parlò Bellavista, nato per un disguido e un guasto condominiale, venne alla luce sulla metà degli anni ’70 rappresentando la summa di una Napoli che come dicevamo già non era più possibile vedere o quasi ma che consentiva di gettare uno sguardo sul contrapporsi della visione istrionica e disincantata della gente del sud, e di Napoli in particolare, rispetto a coloro che provenivano dal nord. Fu però solamente l’anno seguente che l’ingegner De Crescenzo poté finalmente abbandonare quel lavoro che lo annoiava a morte ma che gli consentiva di guadagnare la bellezza di settecentomila lire mensili necessarie per mantenere la figlia Paola, nata dal matrimonio consumato velocemente con la moglie Gilda – quella del “Guarda che io me ne vado” di cui sopra – matrimonio in seguito annullato dalla Sacra Rota. A ordire la trama l’amico Maurizio Costanzo che appassionato del professore in pensione lo invitò al talk show Bontà Loro ponendo ai telespettatori un dilemma degno di John Nash ovvero se fosse opportuno per l’ingegnere proseguire la sua carriera di scrittore, limitandosi a quello, o se fosse meglio che proseguisse con il più classico dei lavori impiegatizi. La chiosa è oggi scontata ma quella diretta consentì a De Crescenzo di lasciare il porto sicuro dell’IBM per gettarsi nella mischia che tanto lo appassionava, non senza trovare il tempo di vergare una lettera di dimissioni degna della sua verve umoristica:

Cara IBM,

tutto è finito tra noi. È stato molto bello, però credo che non abbiamo più niente da dirci. Tuo      

Luciano De Crescenzo”

Da lì in poi Bellavista portò De Crescenzo a vincere premi letterari, cinematografici, grazie alla trasposizione del 1984 nel quale l’ex ingegnere si cimentò anche dietro la macchina da presa vincendo sia il David Di Donatello che il Nastro D’argento 1985 come miglior regista esordiente, consentendogli di iniziare a frequentare più assiduamente il mondo dello spettacolo che tanto lo affascinava, lui amico di vecchia data di Renzo Arbore, conosciuto molti anni prima per via di una donna che (ovviamente) avevano in comune ignari l’uno della presenza dell’altro. Fu quindi grazie a quel primo libro oggi ristampato più volte che finalmente prese il via la carriera dell’ingegnere filosofo.

Una carriera che poco per volta lo ha trasformato a tutti gli effetti in un divulgatore, grazie alla collana dedicata alla storia della filosofia divisa per periodi storici, facendolo diventare una sorta di: “scaletta che si trova nelle biblioteche. Una scaletta pronta a servire per raggiungere il sapere racchiuso nei libri” e in un uomo capace di non farsi imprigionare in un solo genere che si trattasse di scrittura, matematica, informatica, musica e la sua immancabile filosofia.

Una carriera che non si è mai veramente fermata se non lo scorso 18 luglio a Roma a causa di una scomparsa non certo prematura, quando le prossime candeline sulla torta sarebbero state 91 e lo stesso De Crescenzo ormai sorrideva del fatto che la memoria iniziasse a vacillare al punto di consegnare sempre un biglietto da visita nelle mani di chi incontrava ammonendolo seriosamente: ”sapete, la memoria è quella che è. Quindi vi consegno il biglietto da visita che sai mai che non mi ricordi come mi chiamo e chi sono”. Io a occhio direi che si trattasse di un ingegnere. O forse no? Forse era un filosofo oppure un cineasta, non ne sono certo. L’ho pure visto cantare in tv una canzone in slang napoletano al fianco di uno col gilet colorato che suonava il clarinetto. Ma sì dai in fin dei conti forse era uno di quelli che vendeva computer grandi quanto un condominio, ma poi forse non ne sono del tutto certo.

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