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Back In Time

“My Generation”, l’arroganza, l’incoscienza, lo splendore dei The Who

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Con i primi due 45 giri, I Can’t ExplainAnyway, Anyhow, Anywhere, avevano dato fuoco alle polveri, ma fu col terzo che provocarono un’esplosione senza precedenti nel mondo del rock’n’roll: My Generation era un pezzo iroso e sfrontato che suonava come una proclamazione di guerra e fu presto riconosciuto come inno ufficiale da tutti quei kids ribelli che aspettavano qualcuno che desse parole alla loro alienazione.

I primi a percepire la forza innodica di My Generation furono i mods, teppisti in lambretta e gauloises che animavano le notti della Swinging London tra overdose di anfetamine e risse coi rockers. Londra era l’epicentro del terremoto giovanile, e alle minigonne di Mary Quant, le vetrine alla moda di King’s Road, i cappotti di pelliccia di Marianne Faithfull, s’aggiunse il logo degli Who, ideato per pubblicizzare uno dei loro primi concerti al Marquee. Con My Generation, poco più di tre minuti di canzone, gli Who s’erano inventati l’hard rock e il punk, o comunque li stavano clamorosamente anticipando.

In un’ epoca in cui le classifiche di vendita significavano ancora qualcosa, My Generation balzò al secondo posto, e fece da traino ad un album omonimo che confermava il pandemonio che gli inglesi avevano visto in televisione al Ready Steady Go!, quando Pete Townshed e il folle batterista Keith Moon sfasciarono in diretta i propri strumenti: quelle canzoni erano l’altoparlante del rancore e dello spaesamento della loro generazione, e ascoltare gli Who era come scappare di prigione.

Gli Who di “My Generation” stavano ancora cercando la propria strada, ma intanto si erano creati un’immagine da autentici anarchici del rock’n’roll, sopratutto dal vivo: l’unico che sembrava avere tutte le rotelle a posto era il rivoluzionario bassista, John Entwistle, tra i primi a togliere alla chitarra un ruolo centrale e a suonare gli assoli di basso in un gruppo rock. In realtà The Ox, come era soprannominato, finì presto con l’ arrendersi alla mitologia autodistruttiva del sex, drugs and rock’n’roll, anche se nelle prime pagine della cronache finiva sopratutto quel pazzo furioso di Keith Moon, uno psicopatico che quando non era impegnato a distruggere camere d’albergo o a girare conciato da ufficiale nazista nei quartieri ebraici, sfogava il proprio sadismo facendo diventare la batteria una centrale nucleare. Era lo showman del gruppo, e il suo drumming pirotecnico ed acrobatico  sembrava che da un momento all’altro dovesse franare addosso a Roger Daltrey, un cantante potente e selvaggio che dal canto suo assaliva le canzoni come fossero una preda, e che si era inventato quella cosa del lancio del microfono in aria a mo’ di lazo.

Daltrey fu quello che portò in “My Generation” la  passione per il soul e il rhythm’n’blues: I Don’t Mind e Please, Please, Please, due lentacci disperati che grondavano blues da tutte le parti, erano presi dal repertorio di James Brown, mentre I’m A Man arrivava dal canzoniere di Bo Diddley. Il resto del long playing era firma di Pete Townshend, l’ideologo e chitarrista del gruppo, una sorta di  poeta laureato del rock’n’roll specializzato nel comporre trattati sociologici in versione tascabile. La presenza scenica di Townshend era devastante, e l’immagine del chitarrista che roteava le braccia a mulinello sulla chitarra, restò tra le istantanee più iconiche di tutta la musica popolare. Col tempo maturò uno stile di scrittura che lo portò nell’aristocrazia del rock’n’roll grazie ad album epocali come “Quadrophenia” e “Who’s Next“. Per il momento, si accontentava di portare la Motown a Carnaby Street (La- La- La- Lies) o mettere il parka ai Byrds (Much too Much). Altre volte corteggiava il beat degli Stones (A Legal Matter) o si faceva minaccioso come gli Animals (Good’s Gone), e quando scorribandava in zona Beatles tirava fuori l’altro anthem del disco, l’incontenibile The Kids Are Alright.

Come la maggior parte degli esordi dei gruppi del periodo ( Kinks, Them, Pretty Things, Troggs….), il disco era un carosello di buone intenzioni e vulnerabilità, ma apparve subito chiaro che, con l’arroganza e l’incoscienza dei vent’anni, gli Who di “My Generation“  s’erano appena seduti al tavolo dei grandi.

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