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Sigur Rós – Odin’s Raven Magic

2020 - Krunk / Warner Classics
classica contemporanea

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Tracklist

1. Prologus
2. Alföður orkar
3. Dvergmál
4. Stendur æva
5. Áss hinn hvíti
6. Hvert stefnir
7. Spár eða spakmál
8. Dagrenning


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2020, anno di merda, anno di grandi album ma anche anno di dischi vecchi che diventano nuovi. Ce n’è per tutti i gusti: i Subsonica con “Mentale Strumentale”, i Mr. Bungle alle prese con il loro primissimo demo suonato ormai da adulti, i Clutch che rivisitano i classici del repertorio anche loro ormai ben più che adulti e i Grey Daze (ma il loro è tutto un altro discorso). Infine mancavano i Sigur Rós. Invece eccoli qua a riesumarsi, e con loro il calendario scorre al contrario, fino al 2002. A differenza dei dischi appena citati, questo così è stato registrato, così è rimasto.

Il 24 maggio di quell’anno la band all’epoca formata da Jónsi, Goggi, Kjarri e Orri fu invitata, giustamente quanto ovviamente, a esibirsi al Reykjavik Arts Festival, e lo fece mettendo in musica il poema “Odin’s Raven Magic”, un poema islandese che si presume esser stato scritto nel XVII secolo, ma quel che ascolterete nel “nuovo” album degli islandesi è di due anni più vecchio e registrato in quel di Parigi. I nostri, più che skald, però, sono compositori contemporanei, o post-moderni, se vogliamo, e il canto assume un’epicità ben diversa da come l’avrebbero potuto rimaneggiare, che so, i Wardruna (lo so, sono norvegesi, ma la mitologia è la medesima, e anche la provenienza).

Assieme a Hilmar Örn Hilmarsson (spesso a casa Current 93 e Psychic TV), Steindór Andersen, Páll Guðmundsson e Maria Huld Markan Sigfúsdóttir (direttamente dalle vecchie compagne Amiina) i nostri si lanciano in un’opera (letteralmente) che guarda alle messianiche partiture di Arvo Pärt, qui ammantate di paganesimo, nella maniera più didascalica possibile con quel retrogusto di fine a se stesso che hanno questo tipo di progetti. Nei primi tre movimenti, la composizione si stende su movimenti ariosi, in cui coro e voce solista si innalzano inneggiando, a passi lunghi e larghe intese che di quel post- di cui sopra hanno poco, ma che sanno girare attorno alle ben conosciute melodie del gruppo, ben nascoste negli ampi volteggi del L’Orchestre des Laureats du Conservatoire National de Paris.

Il climax arriva (spazzando via un po’ di noia, perché ok Pärt, ma manca tutta la sua forza) quando i due mondi finalmente si scontrano. Stendur æva è liminalmente elettrogena, e qui risuonano Eno e Glass in unisoni dislocati in altre dimensioni, Andersen e Jónsi si prendono per braccio e nelle tonalità basse di uno si riflettono quelle alte dell’altro, in un crescendo che presto da angelico diventa muscolare. Hvert stefnir, coi suoi vibrafoni gelidi, è lento incedere nella terra dei ghiacci, sovrastata da synth che danno i brividi e infine dalla sezione dei legni, che tratteggia un paesaggio in contrasto con il terrore, bello e ampio. Tutto s’assopisce, fino a Dagrenning, in cui le voci di tutti si vanno a solidificare in un crescendo che sbatte le ali e s’innalza, l’elettricità spinge fuori dallo schermo il resto e dà un colpo d’uppercut duro e strabordante, scuotendo dal sonno (seppur della ragione) che rischiava di far stagnare il tutto, e infine accumulando tutta la tensione in un grumo feroce. Telefonato, ma funzionale.

Tutto molto bello, sì, ma a che pro? Non fraintendetemi, è un lavoro di tutto rispetto ma tende a non dare quel di più che, ad esempio, osò Beth Gibbons alle prese col Maestro Górecki e la sua Sinfonia n. 3. Per di più, è un’opera di diciotto anni fa, ma che dello strapotere di “( )” non ha nulla. Non è la stessa cosa, direte voi, e avreste anche ragione. Allora perché riproporlo così tardi, a giochi fatti, e con alle spalle “Kveikur” e senza aggiungerci proprio nulla? Forse è giusto che i Sigur Rós restino nelle proprie tenebre (non è obbligatorio comporre e registrare se non si ha nulla da dire, oltre al fatto che certe urgenze Jónsi se l’è risolte con “Shiver”), ognuno ha i suoi tempi. Un’operazione nostalgia fine a se stessa, bella, ma è tutto lì.

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