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“Damaged” dei Black Flag, la ricerca della libertà fa male

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Damaged”, 1981: La merdosa città è gestita da maiali, loro negano i nostri diritti e noi sappiamo di combattere una guerra che non possiamo vincere. Loro ci odiano, ma noi odiamo loro. Ovvero la pace sociale secondo i Black Flag.

L’esperienza più vicina all’ascolto di “Damaged” che mi è mai capitato di fare nella realtà è stato ritrovarmi sudato, per la prima volta nella mia vita, in una sudicia palestra affollata con dei guantoni infilati nelle mani, un paradenti e un caschetto da pugile male allacciato. Di fronte, riccioluto e più basso di me di almeno un palmo, avevo quell’istruttore con gli occhi azzurri e lo sguardo da SS. Ancora oggi a distanza di anni non ricordo con precisione quando tutto è cominciato. Quello che so è che ho preso tanti di quei pugni in faccia da non riuscire a contarli, che sarebbe stato comunque impossibile, ma nemmeno riuscire a vedere da dove arrivavano. Avevo di fronte a me uno che mi bersagliava di ganci, diretti, jab, uppercut, una vera e propria gragnola di colpi e non riuscivo a capire da dove arrivassero. Ecco, questa è la stessa sensazione che ricordo del primo ascolto di “Damaged” dei Black Flag… ma da dove cazzo arrivano i colpi?

Nati nel 1976 in California (Hermosa Beach) grazie al chitarrista Greg Ginn, i Black Flag sono considerati una delle prime (se non la prima) band hardcore e, insieme, a Minor Threat e Bad Brains formano la sacra trinità del genere. Registrato nel 1981, “Damaged” è il loro primo album e a dispetto delle imperfezioni dovute a un cantante al debutto col gruppo e di uno stile grezzo e brutale è caratterizzato da un suono affiatato e maturo, senza dubbio merito del tempo passato in prove incessanti e concerti in giro per la California.

Photo: Edward Colver

Damaged” racconta fedelmente le distopie di un periodo collettivo e personale imprescindibile per quello che siamo diventati ora, oltre ad assurgere immediatamente a documento indispensabile della storia del punk e dell’hardcore. Come gran parte dei dischi della decade compresa tra i ’70 e gli ’80, i temi principali riguardano la lotta all’autorità e al conformismo, l’alcool e l’imbruttimento dal cui abuso ne consegue. I testi parlano di isolamento sociale, povertà, paranoia e nevrosi varie. Alcool e violenza, fatta e subita. La perfetta descrizione di quanto potesse sentirsi a disagio un ventenne appena affacciatosi alla vita da adulto, in una società conformista e conservatrice. Quindici brani per trentacinque minuti che offrono una panoramica ampia e variegata di quello sarebbe diventato da lì a poco il mondo musicale alternativo: punk hardcore, chitarre heavy metal e cambi di ritmo, brani lenti e dardi lanciati alla velocità della luce e un modo di suonare la chitarra feroce ed estremamente caratteristico (e seminale). Elementi di free jazz e di improvvisazione, una voce lacerante e fastidiosa. Testi oppressivi e dolorosi, ma anche una leggerezza da sbronza collettiva e prese per il culo. Tutto ciò rende “Damaged” incredibilmente reale e vero, uno strumento necessario per la comprensione del disagio giovanile. E per il pogo.

Damaged” può essere considerato come composto da due album diversi (e all’epoca del vinile sarebbe stato ancora più evidente!) da una parte i brani dell’alcool e della rabbia rivolta verso l’esterno, pura manifestazione di distruzione. Dall’altra quelli più cupi e meno immediati che rendono evidente quale sarebbe stata da lì in poi la strada percorsa dal gruppo. Il lato classico del disco comincia con Rise Above, un catalizzatore della rivolta contro il sistema, l’inno perfetto per una marcia di blackblockers intenti a mettere a ferro e fuoco sedi di banche e ministeri. I trentadue secondi di Spay Paint sono liberatori e affermativi, un vero e proprio manifesto delle intenzioni della band e personalmente per ritrovare qualcosa di simile dovetti aspettare fino all’uscita di “Hang The Pope” dei Nuclear Assault. Six Pack, TV Party e Thirsty And Miserable indulgono abbondantemente sull’alcool, i suoi effetti e il suo uso come anestetico sociale.

Caratterizzate da una marcata vena ironica (non dobbiamo dimenticare che Rollins era vicino alla scena straight edge di Minor Threat & co.), raccontano/descrivono/ridicolizzano un certo stile di vita a base di birra e divano. Police Story e Gimmie Gimmie Gimmie concludono il primo lato del disco, con la prima che mette in chiaro senza ombra di dubbio quali sono i rapporti con il potere e i suoi rappresentanti: Fucking city is run by pigs/They take the rights away from all the kids/Understand that we’re fighting a war we can’t win/They hate us, we hate them“. Anche se apparentemente superficiali, queste canzoni non parlano solo di ribellione giovanile e lotta all’autorità, ma ne fanno emergere le cause, funzionando da valvola di sfogo per chi sente sfuggire dal proprio controllo quello che lo circonda.

Visto in quest’ottica, “Damaged” non vi sembra dannatamente attuale? Le restanti sette canzoni non fanno altro che confermare quanto detto, ferocia e rabbia rimangono immutate, l’umorismo invece viene attenuato, se non eliminato. Abbiamo la paura, il bisogno di aiuto, la necessità di agire, anche se non si sa come e l’ansia di chi sente sfuggire la terra sotto i piedi, che si trovi nella stanza di un manicomio o che abbia un attacco di panico. Depression, Room 13 e Damaged II sono puro materiale esplosivo che completa il quadro della situazione. No More si caratterizza con una nota di basso che pare una campana a morto, come fosse il ritmo di un pesante funerale vichingo, di una salma destinata a un purificatore falò terminale. Padded Cell e Life Of Pain, classiche ormai nei riff di Ginn e nel ritmo frenetico, introducono la prima prova del cantante alla scrittura, Damaged I. Un’anteprima succosa di quello che verrà con la Rollins Band. Un mostruoso accavallarsi di suoni dissonanti e incastrati senza una logica apparente. Solo apparente.

A questo punto un piccolo inciso su Henry Rollins: i Black Flag sono soprattutto una creatura di Greg Ginn e della sua furiosa etica di lavoro. Intorno a lui si è avvicendato un interno universo di componenti, chi più chi meno importante per la band. L’aspetto eccezionale che riguarda Henry Rollins è che nonostante fosse l’ultimo arrivato (anzi l’ultimo e appena arrivato) e non avesse partecipato alle sessioni di scrittura dei pezzi, la sua voce, la sua attitudine, la rabbia devastante e devastata e, nondimeno, la sua empatia si sono perfettamente incastrati sul pre-esistente, permettendogli di caratterizzare i brani come se fossero propri e, attraverso quella musica, di scattare un’immagine realistica delle ansie e delle nevrosi proprie e quelle di adolescenti persi in un mondo a cui non appartenevano (non ancora). La sua impronta è chiara e caratteristica. La presenza vocale e fisica, credibile e vera, riesce a definire i brani in maniera più profonda, sottraendo leggerezza (cazzeggio) e aggiungendo profondità (dramma). Brani che in partenza erano semplicemente inni punk, come Rise Above, Six Pack, TV Party, Police Story e Gimmie Gimmie Gimmie, virano di colore, e anche se non totalmente sconvolti nel loro significato, risultano arricchiti da una più profonda poetica. Fine dell’appunto.

Caratterizzato da una produzione rozza, “Damaged” risulta efficace ben oltre le aspettative rappresentando non solo la pietra miliare del gruppo, ma anche la fotografia di un momento storico di passaggio, sia socialmente, sia musicalmente, e una spina infilata nel fianco di una società chiusa ai cambiamenti e al disatteso. “Damaged” è la reazione estrema di chi cerca la propria via verso la libertà, di chi si ribella alla consuetudine e all’atto cannibale del padre verso i figli, è un grido doloroso e violento di chi vuole essere se stesso, libero e vero.

In definitiva? “Damaged” è estremamente attuale, visto che le problematiche che all’epoca lo hanno innescato non sono di certo scomparse, né risolte, ma hanno solo cambiato forma esterna. È un disco violento, brutale, correttamente bilanciato nel serio e nel faceto. È quello che a diciott’anni, scontento e sperduto, mi aspettavo di sentire, è stata la gioia di scoprire di non essere il solo a sentirmi fuori posto. Greg Ginn, Dez Cadena, Chuck Dukowski, Roberto “ROBO” Valverde ed Henry Rollins (ma anche Keith Morris) ci hanno regalato un magnifico horcrux che consente ai nostri più intimi sogni di libertà di non morire mai. Anche oggi nel 2020.

P.S. Per capire quanto i Black Flag siano entrati nell’immaginario collettivo, basti pensare che come sigla di coda di un episodio di Futurama appare una cover di TV Party. Dubito fortemente che nel 1981 qualcuno potesse anche solo pensare una cosa del genere…

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