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“20 Jazz Funk Greats”, la rivoluzione industriale dei Throbbing Gristle

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Gli anni ’60 possono essere a ragion veduta definiti come l’incubatrice dell’era moderna. L’impatto dei movimenti culturali – più o meno spontanei – sorti in quel decennio ha ripercussioni ancora oggi, basti pensare solo alle lotte studentesche ispirate al ’68. Spesso si parla di beat generation, altre volte di hippies quando si vogliono indicare fenomeni in grado di influenzare la cultura di massa. Ma c’è un movimento, meno celebrato ma non per questo meno importante, che ha giocato un ruolo decisivo nella nascita di diversi generi musicali.

Parliamo dei Merry Pranksters, letteralmente gli allegri burloni, una comunità di attempati libertini capitanati dallo scrittore Ken Kesey (Qualcuno volò sul nido del cuculo): troppo giovane per essere considerato credibile all’interno della beat generation, troppo vecchio per aderire alla nascente filosofia hippie, Kesey riesce a portarsi in giro, a bordo del suo variopinto scuolabus, niente meno che Neal Cassady, che del beat fu teorico e fautore insieme a Jack Kerouac. Insieme, Ken e Neal girano gli States tenendo jam e read sessions, inscenando spettacoli e cibandosi di strane pasticche dagli effetti psichedelici (vabbè, dai, ormai l’ho detto: era LSD).

A fine decennio, un gruppo di performers britannici di stanza nello Yorkshire decide di imitare i Pranksters. Inizialmente sono due, ma nel corso delle loro esibizioni cercano di coinvolgere un numero sempre maggiore di volontari. Si chiamano Neil Andrew Megson e Christine Carol Newby, ma in arte usano gli pseudonimi Genesis P-Orridge e Cosey Fan Tutti. Il loro duo prende il nome di COUM Transmissions.

Nella prima metà degli anni ’70, i COUM portano scompiglio per le strade di Londra. Sono performers e attivisti: protestano per qualsiasi cosa ritengano giusto ma al tempo stesso mettono in piedi spettacoli a tema, con modalità tanto scioccanti e coinvolgenti da sfociare quasi sempre nella rivolta sociale. All’Institute of Contemporary Art, nel cuore della City, allestiscono una mostra chiamata Prostitution, una serie di eventi ospitati nella disturbante cornice formata da siringhe usate, assorbenti sporchi di sangue mestruale, foto che immortalano scene esplicite di sesso e altre simili amenità.

Dopo vari incontri con musicisti e produttori discografici, il 3 settembre del 1975 l’esperienza dei COUM Transmissions viene dichiarata ufficialmente conclusa. Dalla performing art si passa alla musica, una passione talmente fulminante che la neonata band decide di chiamarsi Throbbing Gristle, espressione dialettale usata nello Yorkshire per indicare un’erezione immediata. A Genesis e Cosey si aggiungono in pianta stabile Chris Carter – polistrumentista e tecnico del suono – e Peter Christopherson, tastierista e designer, socio di Storm Thorgerson in quella scatola di genialità che fu la Hipgnosis.

Si fa presto a dire musica, ma cosa devono suonare di preciso i Throbbing Gristle? Gli artisti preferiti dai quattro sono diversi e tutti molto impegnativi: si va dai Velvet Underground ai Can, da John Cage a La Monte Young. Generi molto diversi tra loro? Assolutamente sì, ma c’è un fattore che li accomuna tutti: l’essere dei pionieri. Ciascuno di loro ha letteralmente inventato qualcosa in campo musicale: il cantare la disperazione umana di Reed e Cale, il movimento kraut fondato da Czukay, i 4’33” più famosi di ogni tempo e il minimalismo del compositore di Bern. Ognuno di loro ha tirato fuori qualcosa che semplicemente prima non c’era.

I Throbbing Gristle però non devono essere un riassunto degli altri, così decidono di assemblare la loro musica e formare uno stile del tutto personale, montando pezzo per pezzo gli elementi provenienti dalle loro fonti d’ispirazione. Amano raccontare la disperazione, esprimersi alla maniera elettronica, ma senza i fronzoli di una suite di mezz’ora. Più di tutto, assoluto elemento di innovazione, è la passione per i rumori di fabbrica che scandisce il groove: drum machine che picchiano come martelli sul ferro, tastiere che simulano strumenti da taglio, urla lancinanti di operai in preda alla stanchezza che diventa alienazione. E’ così che devono suonare i Throbbing Gristle.

Ma siamo solo all’inizio. Tutto ciò non può essere trasmesso al pubblico attraverso dischi registrati in uno studio freddo e desolato. Ci vuole presa diretta, che deve per forza di cose fare leva sulla perversione. L’obiettivo di Genesis e soci è quello di creare ossessione nella mente dello spettatore, facendo emergere i lati più oscuri della sua mente. Ecco spiegato perché la prima parte della loro esperienza musicale i Throbbing la passano sostanzialmente a registrare live session tenute in tutta l’Inghilterra. Chi è stato ad almeno uno dei loro concerti racconta di esibizioni ai limiti dell’umana comprensione: campionamenti, distorsioni e sovraincisioni fanno da colonna sonora a immagini truculente, pornografiche o semplicemente provocatorie (famosa è l’esposizione di svastiche naziste).

Ma siamo solo all’inizio. Tutto ciò non può essere trasmesso al pubblico attraverso dischi registrati in uno studio freddo e desolato. Ci vuole presa diretta, che deve per forza di cose fare leva sulla perversione. L’obiettivo di Genesis e soci è quello di creare ossessione nella mente dello spettatore, facendo emergere i lati più oscuri della sua mente. Ecco spiegato perché la prima parte della loro esperienza musicale i Throbbing la passano sostanzialmente a registrare live session tenute in tutta l’Inghilterra. Chi è stato ad almeno uno dei loro concerti racconta di esibizioni ai limiti dell’umana comprensione: campionamenti, distorsioni e sovraincisioni fanno da colonna sonora a immagini truculente, pornografiche o semplicemente provocatorie (famosa è l’esposizione di svastiche naziste).

I primi due album dei Throbbing Gristle, “The Second Annual Report” (1977) e “D.o.A.: The Third And Final Report” (1978) non sono composti da canzoni, intese nel senso di concatenazioni di note. Sono composizioni basate sul rumore, definite dalla critica dell’epoca nauseanti, intransigenti, distopiche, spiazzanti, tutti “complimenti” che convincono la band a cambiare completamente strada.

Dopo lunghe sessioni in studio, in un giorno imprecisato di dicembre del 1979 esce “20 Jazz Funk Greats”, disco rivoluzionario già nel concepimento perché totalmente privo di live sessions. Niente immagini strambe o provocatorie di accompagnamento, bensì un artwork apparentemente normale che ritrae i quattro vestiti di tutto punto, immortalati sulla scogliera di Beachy Head. Ma ecco la prima trappola, in perfetto stile Throbbing: quella scogliera è ben nota alle cronache come il luogo di maggior concentrazione di suicidi al mondo.

Altra presa in giro risiede nel titolo. Cosey dichiarò che fu studiato apposta per attirare gli appassionati collezionisti di dischi: una volta a casa si sarebbero resi conto che non si trattava di un LP jazz o funk. Ciò che Cosey non dice è che “20” è molto di più di un semplice disco di genere, jazz o funk che siano. Siamo di fronte al disvelamento del disegno dei Throbbing Gristle. Non disturbo fine a se stesso, ma per educare all’apertura la mente di chi li ascolta. La band ha come fine ultimo quello di condurre all’interpretazione della realtà in un modo diverso rispetto alla bigotta e conservativa mentalità britannica.

La title track, che apre il disco, è un’ulteriore esca per attirare l’ascoltatore, uno slow funk con fiati tipicamente jazz. Ma l’atmosfera in maniera crescente si fa dissonante e tetra, introducendo Beachy Head, il pezzo intitolato come la scogliera in copertina. Chiudendo gli occhi durante l’ascolto si percepisce la sensazione di vuoto che si respira su quel dirupo, tra rumori lontani, vento che soffia e desiderio di morte.

Con Still Walking si rivedono a tratti i vecchi Throbbing, che mescolano elettronica e rumori di fabbriche a lamenti di voci fuori campo. Segue Tanith, dominata da una lugubre bassline, scavalcata in breve tempo da Convincing People, una lenta ed ossessiva marcia elettronica nella quale spicca il parlato di Genesis, che sussurra, biascica, si lamenta e alla fine urla alla sua maniera. Il lato A si chiude con Exotica, uno dei prodromi di quel genere che verrà poi definito dark ambient. E a proposito di anticipo sui tempi, Hot In The Hells Of Love risuonerà in tutto il suo splendore nella dance elettronica tanto in voga nel decennio ’80 ormai alle porte.

Persuasion sembra la colonna sonora di un film horror-splatter: non si fa fatica a immaginare un vicolo cieco e la persona che urla inseguita da un Genesis in vena di compiere cose poco ripetibili. Con Walkabout vengono di nuovo esplorati i sentieri dell’elettronica classica. Poi ecco What A Day, scandita da una drum machine che sembra un’accetta che picchia contro un albero, maneggiata con (poca) cura da un allucinato e urlante Genesis. E per non farsi mancare nulla, ecco il gran finale di Six Six Sixties, al rovente suono di una chitarra che con un largo eufemismo possiamo definire distorta.

C’è poco da fare, “20 Jazz Funk Greats” è un capolavoro. Disco che rispetto ai precedenti è meno enigmatico, più diretto e maturo, che finalmente fa capire dove vogliono andare a parare i quattro di Hull. Le scelte stilistiche sono impeccabili, nulla è buttato lì a caso e i brevi cali di tensione altro non sono che passaggi funzionali per il delirio che sopraggiunge.

A tutti gli effetti è una pietra miliare, perché tanti musicisti del trentennio successivo attingeranno a piene mani per scrivere pezzi, concepire album, finanche fondare generi. Basti pensare al filone elettro-danzereccio e all’acid house degli anni ’80, nonché il cosiddetto industrial rock, che al grunge e al britpop contese fino all’ultimo lo scettro di genere identificativo degli anni ’90. Gente come Ministry, Nine Inch Nails e Marilyn Manson probabilmente non sarebbe mai esistita senza “20 Jazz Funk Greats”, sicuramente avrebbe proposto cose molto diverse.

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