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“All Things Must Pass”, sacralità, quiete ed empatia di George Harrison

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Lo sappiamo, gli addii fanno schifo.Ma quando il 10 aprile del 1970 Paul McCartney dettò al Daily Mirror l’epitaffio dei Beatles, per George Harrison fu come tornare dalla guerra. La storia la conoscete: quanto a ego, John e Paul erano i campioni del mondo in carica (sì, Mick Jagger veniva dopo), e il mite George, dopo tanto sgomitare, realizzò che da quelle parti la democrazia era ormai poco più che una superstizione. Nel frattempo, aveva accumulato un buon capitale di canzoni, tante da riempirci trionfalmente un triplo long playing, il primo della storia (vero: c’era stato Woodstock, ma parliamo di un’altra cosa).

Per trovare un vestito buono per tutto quel materiale, si affidò a Phil Spector, il leggendario produttore che aveva già messo le mani su “Let It Be” dei Beatles e su una serie impressionante di hits: dalle Ronettes (quelle di Be My Babe, per capirci, con buona approssimazione il miglior singolo pop di sempre) ai Righthouse Brothers, da Ike and Tina Turner alle Crystals. Spector era uno svitato con la passione per gli acidi e per le armi, ma si era inventato questa cosa del Wall Of Sound che lo rese il produttore più influente nella storia del rock’n’roll: un suono denso, stratificato, imperioso, che dava a “All Things Must Pass” un’aria solenne ed euforica. In seguito chiesero i suoi servigi gente come Leonard Cohen, Ramones, Velvet Underground e Bob Dylan. Ah, Dylan: lui e George Harrison si erano conosciuti a Woodstock, nella residenza dove il futuro premio nobel trascorreva la convalescenza dopo essersi spezzato l’osso del collo in un incidente motociclistico.

(c) Berry Feinstein

All’epoca (ma anche negli anni a venire, e poi ancora, nei secoli dei secoli) Dylan era la stella polare per chi volesse scrivere una canzone degna di un minimo d’attenzione. Con Harrison nacque un bel rapporto, e l’album si apriva proprio con una canzone scritta a due, I’d Have You Anytime: una ballata dolce e confortante, con una slide che faceva uscire il miele dalle casse. Forse un pezzo poco rappresentativo del resto, e infatti appena dopo arrivava il mantra di My Sweet Lord, che subito si prendeva il primo premio: era un incrocio tra Oh Happy Day e She’s so Fine delle Chiffons (plagio inconscio, disse un giudice) e insisteva sul concetto dell’esistenza di un unico Dio. Qualunque fosse il vostro, la canzone era grandiosa. Volendo, possiamo dire che My Sweet Lord racchiudeva gran parte della filosofia dell’album, con le altre canzoni che tematicamente le giravano attorno: il tortuoso dualismo fra il bene e il male, il contrasto tra spiritualità e materialismo, l’accettazione della fugacità delle cose terrene, il disprezzo della fama e cose così insomma, tutti concetti che Harrison aveva indagato e rafforzato da quando aveva scoperto il guru Maharishi Manesh Yogi e i testi sacri dell’induismo.

Quando deviava dalla retta via, Harrison tirava fuori il risentimento di Wah Wah (una freccia gentilmente imbottita di veleno, destinazione McCartney), un rock’n’roll massiccio e cacofonico che se suonato alto faceva saltare gli amplificatori. Piuttosto mossa era pure What’s Life, chitarre fuzz, archi, fiati e un po’ di soul. La sinfonia degli ospiti era trionfale: Eric Clapton scorrazzava qua e là con la chitarra, Delaney & Bonnie portavano un po’ di gospel, e poi ,ancora, Ringo Starr, Dave Mason, Billy Preston. Per il suo capolavoro il quiet beatle non s’era fatto mancare niente, decisamente: Isn’t It A Pity, Hear Me Lord, la dylaniana If Not For You e Beware Of Darkness erano ballate gloriose e la voce empatica e rassicurante di Harrison evocava una nuova forma di saggezza rock.

All Things Must Pass” si prese il primo posto negli USA e nel Regno Unito, e vendette in poco tempo una cosa tipo 7 milioni di copie. A John e Paul fischiarono le orecchie.

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