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Back In Time

“Sweet Dreams (Are Made Of This)”, la materia di cui sono fatti gli Eurythmics

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Tra “In The Garden” (1981) e l’uscita del primo album di indiscusso successo di una delle band inglesi più iconiche del pop europeo che prende il titolo dall’omonimo singolo, avvengono alcune vicende che creano i presupposti atti a definire il cammino artistico degli Eurythmics fino all’anno del loro primo scioglimento.

Una scelta di libertà, quella di sperimentare sia con i testi che con gli arrangiamenti, che mirava a giocare sull’utilizzo dei sintetizzatori e di tutti gli strumenti che la musica elettronica metteva a disposizione della band (che si avvalse anche del talento di Robert Crash, Adam Williams e Reynard Falconer), e che lasciava spazio, molto spazio, alla voce possente da contralto di una vocalist che fu – fin dagli esordi del gruppo – molto più che la splendida ragazza androgina che, con i suoi look, diede un rivoluzionario contributo anche all’industria dei videoclips musicali.

Sono gli anni in cui i primi Commodore 64 cominciano ad essere commercializzati ad un prezzo di mercato assolutamente spropositato per l’epoca; e mentre l’Argentina e il Regno Unito si dichiaravano guerra per il possesso di uno scoglio in mezzo all’Atlantico di poco più di 12.000 km², Annie (Lennox) maturava la decisione di interrompere la relazione con David (Stewart) per lasciare spazio ad un rapporto che fosse non solamente quanto piuttosto pienamente professionale.

La Storia le ha dato ragione, gli Eurythmics hanno segnato, per molti della mia generazione, una fondamentale fase di svezzamento musicale senza la quale (sintetizzatori, distorsori e altre varie diavolerie elettroniche) forse non avremmo degnato della minima attenzione un brano (seppur di genere diverso) come Smooth Operator che uscirà di lì a poco. Pur avendo al loro attivo molti amori, diversi matrimoni e sei figli in due avuti da diverse relazioni, i loro “ritorni di fiamma” professionali sono stati improntati sempre dagli ottimi rapporti che i due hanno cercato di preservare nel tempo ed hanno avuto il pregio (ed il buon gusto, aggiungerei) di essere motivati non dalla mancanza di introiti ma dalla consapevolezza creativa di avere qualcosa di nuovo da dire (“Peace” del 1999 e un greatest hits, “Ultimate Collection” che non si nega a nessuno). 

Quando hanno deciso di separare le loro strade, a nessuno dei due è venuto in mente di dedicarsi alla pastorizia. Da solisti, infatti, hanno  scritto arrangiato e prodotto brani (“Why” del 1992 per la Lennox, “American Prayer” del 2002 per Stewart insieme a Bono), colonne sonore (“Dracula di Bram Stoker” per lei),  documentari e film (“Deep Blues” del 1991, “Honest” del 2000 per lui) che hanno avuto un ottimo riscontro sia di critica che di vendite.

Il trasformismo della Lennox resta la sensata risposta ad un’epoca in cui il terrorismo cominciava a dilagare nel Vecchio Continente e il Muro era ancora estremamente solido; i suoi camaleontici quanto repentini restyling erano coerenti con l’inquietudine dei loro testi (Love Is A Stranger) e con i crescendo leggermente ossessivi di brani come I’ve Got An Angel.  

Nell’album “Sweet Dreams” l’angosciante lentezza di The City Never Sleeps si contrappone al clima dance e provocatorio di Wrap It Up, le atmosfere eteree e sovrannaturali di Jennifer e quelle un po’ creepy di This Is The House fanno da spartiacque tra i suoni distorti e quasi ipnotici di Somebody Told Me e il facilmente ravvisabile giro di basso dell’intro (che secondo la leggenda sarebbe un errore fatto in studio) di Sweet Dreams, brano dal testo forte per il narcisista decennio in cui fece la sua uscita, e che vorrebbe spiegarci di quale materia sono fatti i sogni. Almeno quelli sweet

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