Correva l’anno 1996. Dopo due decenni abbondanti di discomusic, dance, euro-dance, simil-dance e tantealtrecose-dance, la musica da discoteca non smette di fracassare le… orecchie e i suoi protagonisti – perché chiamarli artisti mi sembra un tantino eccessivo – continuano a spuntare come funghi in ogni dove. Nel 1996, da qualche parte a Parigi, due ragazzi di nome Thomas Bangalter e Guy Manuel de Homem Christo stanno per scrivere la storia, ma ancora non lo sanno.
Studenti al Liceo Carnot, nel 17.mo Arrondissement della capitale francese, i due iniziano a suonare e a studiare la british invasion degli anni ’70. Fondano i Darlin’, un gruppo indie che viene definito senza mezzi termini un mucchio di stupido punk. Incassate le recensioni negative, Thomas e Manuel ragionano, cambiano registro, pensano “Ma in fondo, quando mai la Francia ha partorito un gruppo rock anche lontanamente credibile?”. Ecco perché si fiondano senza mezze misure sull’elettronica, quella sì fiore all’occhiello della cultura musicale transalpina. Cambiano il nome, assumendo quasi come uno stendardo le ultime due parole di quell’orribile stroncatura: stupido punk, Daft Punk in inglese.
E pensare che nel ’96 i neonati Daft Punk manco lo volevano fare un album. Se ne stavano chiusi nella cameretta di Thomas per interi pomeriggi, a comporre e ad assemblare parti che poi diventavano canzoni vere e proprie. E così per una, due, cinque, sedici volte, fino a quando, riascoltando il tutto pensano: “E se pubblicassimo ‘sta roba?”. Quella roba prenderà il nome di Homework, e sarà il disco da ballo con l’impatto più devastante dai tempi della disco anni ’70, solo che stavolta la rivoluzione – è proprio il caso di dirlo – partiva dalla Francia e non dagli Stati Uniti.
A pochi isolati da quella casa, altri due ragazzi incrociano il destino dei Daft Punk. Sono più grandi di qualche anno, quindi non conoscono Thomas e Manuel. Si chiamano Jean Benoit Dunckel e Nicolas Godin. Il primo è un matematico che ha studiato al conservatorio, è papà di una bimba nata da poco e per sbarcare il lunario non bastano lo stipendio da insegnante e gli spiccioli raccolti nelle poche serate in cui viene ingaggiato per suonare. L’altro è un brillante architetto, che però è disposto a lasciare una professione già avviata per intraprendere la carriera musicale. Non è un musicista vero e proprio, più che altro gli piace smanettare sulle apparecchiature elettroniche.
Lo schema sembra lo stesso di quello seguito dai vicini Daft Punk: passato rock e qualche serata racimolata nei peggiori pub di Parigi, consapevolezza che dalle loro parti quel genere mai produrrà i nuovi Led Zeppelin, passaggio all’elettronica. A differenza dei dirimpettai, non rinnegano Air, il loro primo nome. Incidono anche un EP, “Premiere Symptomes”: siamo già nel 1997. Ma a gennaio di quell’anno nel frattempo i Daft Punk sono usciti allo scoperto, le vendite del loro album d’esordio viaggiano verso numeri a sei cifre, ed è lì che scatta una riflessione, la più importante: “Se copiamo questo stile siamo fregati”.
In effetti con “Premiere Symptomes” il seme è stato gettato, ma i lavori per il nuovo album, nelle intenzioni dei due, hanno l’obiettivo di alzare l’asticella. Da questo punto di vista gli Air sanno di avere molte carte da giocarsi, diverse da quanto di buono ha mostrato Homework. Innanzitutto la strumentazione: nessuno in giro ha intenzione di inserire la tuba o il sitar in un pezzo dance. Secondo: gli Air non copiano il french touch dei Daft Punk semplicemente perché non ne hanno bisogno, possiedono già uno stile personale e immediatamente riconoscibile. Ultimo aspetto, ma più importante: gli Air non sono due DJ che girano dischi su un piatto o gestiscono suoni campionati, tutto ciò che si ascolta è suonato in presa diretta.
I pezzi ci sono, le idee non mancano. Dunckel e Godin riprendono tutto ciò che di interessante hanno dato alla luce negli ultimi tempi e lo uniscono al loro lato oscuro, vale a dire tutta una serie di contaminazioni che i due avevano evitato di dare in pasto ad un pubblico ritenuto ancora troppo acerbo. E il richiamo a The Dark Side non è casuale, perché in cima alla lista dei mentori degli Air ci sono i Pink Floyd. Poi, in ordine sparso, Kraftwerk, Morricone, Debussy, Barry, fino ad arrivare alla musica elettronica dei primi anni ’60.
Ciò che ancora deve aggiungersi, tuttavia, è il tocco finale a un impianto già di ottima qualità. Serve un’anima, un’idea di fondo in grado di rendere eterna un’opera musicale. Il ragionamento per arrivare a quell’idea è semplice, ma nel suo piccolo è geniale. Immaginate di andare a un concerto dei Daft Punnk: una, due, tre ore di casse, campionamenti, suoni ridondanti, gente che salta di qua e di là, confusione, alcool a fiumi e fine delle danze a tarda notte. Di cosa avete bisogno uscendo da quel posto? Di altre casse, campionamenti, suoni ridondanti eccetera? No di certo.
La chiave di volta sta proprio lì. È come se un professore di marketing in quel momento fosse salito in cattedra e avesse parlato ai suoi studenti di posizionamento del prodotto. E’ una lezione universitaria, un concetto di grandissimo valore. Il mondo non ha bisogno di altri Daft Punk: il mondo ha bisogno di qualcuno che venga dopo i Daft Punk, che dia conforto quando il delirio è terminato, che riporti i condotti uditivi a dimensioni umane.
Come assemblare tutto ciò? Con tutto il rispetto per i ragazzini che incidevano Around The World chiusi nella stanzetta adolescenziale di uno dei due, gli Air hanno i giusti agganci già da un po’. Hanno lavorato con i Depeche Mode e Neneh Cherry, sanno il fatto loro e non sono arrivati fin lì per caso. Un giro di telefonate li fa volare dritti a Londra, Abbey Road per l’esattezza, dove ad attenderli c’è niente meno che David Withaker, che lascia ai due una libertà tale da produrre l’effetto collaterale di inibirli in modo quasi irrimediabile. Il fatto di poter disporre di uno degli studi di registrazione più rinomati al mondo sembra essere un sogno: la realtà, al contrario, blocca le mani e la testa dei due in una sorta di paralisi artistica.
Niente paura, ci pensa David. Con l’intuito e il modo di fare che solo i grandi possiedono, il compositore del Surrey capisce che qualcosa non va, così li carica in macchina e li porta nel suo ranch in campagna, a pochi chilometri dalla City. Nel giro di qualche giorno, tra risate, aneddoti musicali e qualche bicchiere di buon brandy, il duo parigino si sente finalmente pronto a rientrare in quello studio per dar vita al capolavoro.
Il 16 gennaio del 1998 nasce così “Moon Safari”, il cui titolo è ispirato al libro “The Martian Chronicles” di Ray Bradbury. E’ un disco inclassificabile perché non può essere incastonato in un genere preciso: è funk, jazz, elettronica e lounge tutto assieme ma al contempo è nulla di tutto ciò. Il grande critico musicale Cesare Rizzi ebbe a dire che la grandezza degli Air risiede nell’unione tra il modernariato analogico anni ’70 e il trip hop.
A proposito del lato oscuro, l’inizio non può che essere dedicato alla Femme D’Argent, la luna, celebrata in un’atmosfera che fa rivivere un viaggio in una notte degli anni ’70. Poi c’è Sexy Boy – il cui video in heavy rotation sbanca Mtv – con la quale gli Air, da amanti di Serge Gainsbourg, tornano indietro nel tempo e spediscono la Jane Birkin di Je t’aime moi non plus in un’epoca indefinita.
Atro giro, altro singolo. All I Need, con la calda voce di Beth Hirsch, richiama Walk On By di Burt Bacharach, portata al successo per la prima volta – manco a dirlo – nel 1963 da Dionne Warwick. Il trittico di singoli si conclude con Kelly Watch The Stars, che non solo nel titolo mostra quanto pane e kosmische abbiano trangugiato i due di Versailles. Qualche tratto del Moby che sarà di lì a poco è tutt’altro che nascosto. Al giro di boa – con Talisman – si scivola languidamente in un downtempo di chiara ispirazione chillout.
A questo punto consentitemi una piccola divagazione. Giorni fa in radio è passata Believe di Cher, classe ’98 anche lei, e lo speaker non ha esitato a dire: “beh certo, da quando Cher ha introdotto il vocoder nella musica poi l’hanno seguita un po’ tutti…”. Maddechè? Il vocoder è stato utilizzato per la prima volta nella “musica leggera” da Bruce Haack in “Electric Lucifer”, un capolavoro datato 1970. Da allora lo hanno sperimentato i Kraftwerk, i Rockets – connazionali degli Air – l’Electric Light Orchestra, fino ad arrivare ai citati Cher e (ovviamente) ai Daft Punk.
Nemmeno gli Air restano indifferenti a quel sistema che consente di trasformare la voce in un suono meccanico, ma per utilizzarlo al meglio è necessario che ci metta le mani il più grande di tutti: Jean Jacques Perrey, parigino anche lui, nonché grande amico e collaboratore di chi il vocoder lo ha sviluppato e applicato alla musica, vale a dire l’ingegnere statunitense Robert Moog (sì, l’inventore dell’organo!). Dalla collaborazione tra gli Air e Perrey nasce Remember.
Il timbro fermo e pulito di Beth Hirsch fa capolino anche in You Make It Easy. Poi arriva il turno di Ce matin la, che in Italia abbiamo conosciuto perché Paolo Sorrentino l’ha utilizzata nella colonna sonora del film L’uomo in più. Anche qui, parliamone: un regista che accosta Chet Baker, i Santa Esmeralda, gli Air e gli Immagination andrebbe studiato a scuola.
Cosa dire invece di New Star In The Sky? E’ floydiana all’ennesima potenza, sembra quasi una di quelle semi-cover di Alan Parsons. E’ il preludio al finale, affidato alla cinematica Le voyage de Pénélope.
“Moon Safari” è un disco maestoso, lo si capisce dal fatto che non c’è stato bisogno di aspettare vent’anni per diventare fonte di ispirazione. Ciò che Dunckel e Godin non volevano mutuare dai Daft Punk è stato poi preso da loro e firmato in calce – in epoca immediatamente successiva – da gente del calibro di Modjo, Royksopp, M83 e Groove Armada.
L’unico rammarico, ma il discorso riguarda la carriera degli Air, è che “Moon Safari” resta una perla ineguagliata. Negli anni sono riusciti a sfornare dischi di ottima fattura, come ad esempio “The Virgin Suicides” (2000), “Music For Museum” (2014), ad oggi ultimo disco a firma Air, oppure i lavori solisti di Dunckel (con il moniker Darkel) e Godin, su tutti il recente “Concrete and Glass”. Indiscutibilmente, “Moon Safari” resta di un altro pianeta o, per meglio dire, un disco lunare.