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“The Process Of Belief”, il sogno di un mondo senza dolore

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Con “The Process Of Belief” iniziò una nuova fase nell’allora poco più che ventennale carriera dei Bad Religion. Una fase di riavvicinamento al proprio passato hardcore punk – in piccola parte trascurato nel corso degli anni spesi nel roster della major Atlantic – ma anche di grande crescita dal punto di vista prettamente musicale, soprattutto per quanto riguarda la qualità di quelle armonie vocali che da sempre rappresentano il fiore all’occhiello della band californiana. Il ritorno in formazione dello storico chitarrista Brett Gurewitz e l’ingresso in pianta stabile del fenomenale batterista Brooks Wackerman diedero a Greg Graffin e compagni la carica giusta per ripartire in scioltezza e non lasciarsi scombussolare dal rientro nella casa natale: la Epitaph Records.

Non una semplice etichetta indipendente, bensì il vero e proprio habitat naturale dei Bad Religion. Il semplice ritrovarsi laddove tutto era cominciato, nel lontano 1980, diede la spinta giusta al sestetto per riscoprire la pura energia delle origini hardcore, dopo un lungo periodo trascorso a “flirtare” con i suoni più pacati del rock. Una potenza punk che letteralmente esplode nella traccia di apertura di “The Process Of Belief”, la fulminante Supersonic, nella quale forse c’è un riferimento diretto a questa necessità di riprendere a correre velocemente (I gotta go faster, keep up the pace/Just to stay in the human race). I ritmi si fanno ancor più forsennati nelle seguenti Prove It e Can’t Stop, che insieme non superano i due minuti e mezzo di durata.

L’avvio, come ben avrete capito, è infuocato: le chitarre di Gurewitz, Greg Hetson e Brian Baker macinano riff al cardiopalma; le sei corde sfrigolano, quasi fossero impegnate in un inseguimento dietro il basso di Jay Bentley e l’implacabile batteria di Wackerman. Si respira un po’ con le melodie pop di Broken, nelle cui strofe troviamo persino degli interventi acustici. Nel bridge del pezzo fa la sua comparsa il primo di una lunga serie di ottimi assoli, da sempre amatissimi dai Bad Religion (una leggera stranezza in ambito hardcore punk).

Con Destined For Nothing Greg Graffin se la prende con i paladini della cristianità e con le loro promesse di vita eterna; e lo fa con grandissimo stile, considerando l’eccellente lavoro armonico svolto nel brano. La band torna a difendere le proprie posizioni atee e umaniste in Materialist, dove il processo della fede che dà il titolo all’opera viene paragonato a un elisir che, invece di rafforzare, rende più deboli.

L’invito che viene lanciato agli ascoltatori è semplice e diretto: non temete le menzogne religiose. Non mortificatevi pensando a un inesistente aldilà. Le preoccupazioni devono per forza di cose essere legate a ciò che è tangibile, alle brutture che accadono realmente sul pianeta Terra: il riscaldamento globale (Kyoto Now!), la corruzione (Epiphany), la manipolazione sociale (The Defense), i disastrosi effetti dell’emarginazione (Bored And Extremely Dangerous) e, più in generale, “tutta la sofferenza di questo mondo”.

Cito così testualmente le parole di una delle canzoni più belle e commoventi nella ricca storia del gruppo losangelino, probabilmente il vero momento clou dell’intero “The Process Of Belief”: Sorrow, l’indimenticabile singolo apripista del disco che, uscendo poche settimane dopo quel terribile 11 settembre 2001, si trasformò rapidamente in un inno punk alla speranza di un futuro migliore. A distanza di vent’anni dalla pubblicazione, purtroppo, l’accorata preghiera laica di Greg Graffin continua a essere inascoltata. Il dolore c’è ancora e, per colpa della pandemia, si è fatto persino più insopportabile. E allora è proprio vero: Dio non esiste. I Bad Religion ce lo dicono da decenni.

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