Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Things We Lost In The Fire”, il secondo disco d’esordio dei Low

Amazon

I Could Live In Hope” era stato un evento gigantesco, uno di quei dischi che cambiano la storia e dei quali sul momento nemmeno gli stessi autori sanno cogliere a pieno la portata e l’importanza. Nessuno come il trio di Duluth, Minnesota, al disco d’esordio era riuscito a stupire in maniera così netta. Perché nessuno prima aveva saputo suscitare tante emozioni e regalare sogni così vividi con un disco così minimale, così scarno e apparentemente freddo. I Low, in altre parole, avevano scritto una nuova pagina della musica rock, non solo dettando nuove regole, ma introducendo di peso una nuova attitudine, una nuova forma di approccio alla composizione e all’esecuzione musicale nel mondo della musica rock.

Da quel momento in poi le cose non sarebbero più state le stesse: i concetti messi nero su bianco dai Low sarebbero stati poi riprodotti e re-interpretati in altre sfere (si pensi al post-rock, che in quegli anni cominciava a cristallizzarsi, e a tutto il movimento sLow-core), e per la stessa band statunitense si apriva un dilemma di quelli difficili da sbrogliare. Come sarebbe stato possibile andare avanti con il peso di una pietra di paragone così imponente? Il rischio di sbiadire di fronte al proprio passato, perdendosi in una ricerca oltranzista del minimalismo, lasciando per strada tutta la carica emotiva era davvero alto, non solo in teoria. Qualche avvisaglia si registrò già nel successivo “Long Division” (1995) che, comunque su standard molto elevati, lasciava trasparire qualche momento di stanca e, soprattutto, in “Songs For A Dead Pilot” (1997), che vedeva i Low impegnati, con un’indole fortemente sperimentale, a cercare di musicare il silenzio, con il risultato di apparire freddi, distaccati e perfino pretenziosi.

Chi erano dunque i Low? Maghi dell’emozione dotati di un innato e naturale calore artistico o gelidi calcolatori, scienziati musicali? Ingabbiati nella loro stessa grandezza, i 3 del Minnesota si apprestavano a tirare fuori dal cilindro un’altra delle loro magie. In “Secret Name” (1999) cominciava infatti a farsi strada tra i brani, per buona parte ancora ancorati alle sonorità di questa prima parte di cammino artistico, una vena pop e cantautorale che nessuno aveva pronosticato. I Low avevano fondamentalmente cominciato a scrivere canzoni, a declinare alla loro maniera gli elementi più classici della tradizione musicale, disegnando melodie compatte e rotonde. Era per la verità tutto ancora in fase embrionale, e “Secret Name” era a conti fatti un album di transizione, una sorta di allenamento per la prova decisiva, per la quale si attendeva il colpo del fuoriclasse.

E i Low fuoriclasse lo erano per davvero, avevano colto i segnali del tempo e capito alla perfezione il momento, e il modo per piegare il tempo: in “Things We Lost In The Fire” c’era ancora, tutta la loro grandezza. Un disco di canzoni pop-rock nelle quali erano incastonati come gemme rare e splendenti tutti gli elementi che fin qui avevano erano stati disseminati lungo il cammino. L’esasperata lentezza che fin qui era caratteristica fondante del suono dei Low cedeva il passo, si accodava e umilmente diveniva uno dei tanti elementi della miscela sonora. I suoni caldi, catturati magistralmente da Steve Albini, erano tornati ad essere un caleidoscopio di emozioni, lo specchio del coinvolgimento emotivo di una band ancora una volta in stato di grazia.

All’apparenza cupo e compassato, “Things We Lost In The Fire” è in realtà un disco di una fruibilità estrema. Fin dall’iniziale Sunflower, in cui la batteria incalzante segue passo passo e senza intralciare l’intrecciarsi delle due voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker, la sensazione è di essere di fronte ad un’opera in cui ogni momento e ogni nota sono pensati e suonati per sorreggersi alla perfezione l’un l’altro. Ci sono i momenti più pop dell’intera carriera dei Low, su tutti Dinosaur Act e Like A Forest, ma ci sono anche ballate come Embrace e Closer che, pur lente e strazianti, sono di una intensità e di una leggibilità memorabile.

Things We Lost In The Fire” era a tutti gli effetti un nuovo esordio, per certi versi al pari di “I Could Live In Hope“, era la dimostrazione che niente e nessuno, nemmeno dopo qualche passo falso, poteva mettere in dubbio la grandezza dei Low.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati