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“Probot”, il metallo urlante di Dave Grohl

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C’è stato un momento, nella prima metà dei 2000, in cui tutti noi (io in primis) credevamo in Dave Grohl. In che senso? Semplice: non solo in quanto batterista dei Nirvana (all’epoca non erano tra i miei ascolti grunge “heavy rotating”, né gli ultimi, per carità, quelli erano gli Screaming Trees, mai piaciuti, mai piaceranno), né come frontman dei Foo Fighters, che gasavano, sì, ma che già mostravano il fianco debole che li accompagna ancora oggi, niente di tutto questo. Grohl pareva tutto tranne che inchiodato allo show-biz, all’enorme successo della sua band, e si muoveva in territori che lo portavano al di fuori di quella che tutti gli affibbiavano come comfort zone, quella del power pop buono solo per MTV.

Grohl è stato svezzato e cresciuto dall’hardcore, non dalle luci della ribalta, non dagli estenuanti tour in compagnia dell’altrettanto estenuante figura magica di Cobain. Nelle pieghe di un mondo che è sempre stato, e sempre sarà, di nicchia, ha trovato modo di formarsi, facendosi svezzare dalla follia, dall’obliquità, dalla fame del più ampio spettro musicale possibile, apparentemente senza alcun tipo di limite. In quegli anni, per me magici e non solo spettro del decennio precedente, c’era qualcosa che si agitava sotto la superficie e lontano dalle telecamere e dai videoclip, ed era sotterraneo e te lo ritrovavi non solo su dischi di Nine Inch Nails e Killing Joke (di questi ultimi un album immenso, devastante, pure per gli standard già piuttosto alti di Jaz Coleman e Youth), David Bowie e The Prodigy o tra le fila dei Queens Of The Stone Age, fautore del capitolo irraggiungibile della compagine scalcagnata di Homme, ma anche in luoghi in cui non lo avresti mai immaginato. Tipo in casa Southern Lord.

Ora, quelli che come me hanno amato più il metal ai margini esterni della galassia ancora in espansione del genere, Southern Lord significava Sunn O))), ovviamente, che non erano ancora quel fenomeno standardizzato dagli alt-metalhead a là page che oggi ti ritrovi tra i piedi ad ogni angolo, barba d’orginanza per la compagine maschile o capelli tinti e due o tre piercing per quella femminile, toppe che si dividono tra i grandi del genere e band sconosciute e orrende provenienti dal sud-est asiatico o da dietro casa, bensì qualcosa di davvero marginale, strano, assurdo, un mondo privo di ritmo, in cui il metal era un’eco lontana, un sussurro di feedback. Ecco Grohl, che a tutti gli effetti era una rockstar, qui, nell’etichetta meno patinata del mondo, più distante possibile dalla realtà in cui vivevano i Foo Fighters. Voi la vedrete come una cosa poco, niente più di una cazzata, e invece per noi, per me, era, boh, mind blowing. Che ci fa qui, in questo contesto, uno come Dave?

Semplice, riprendeva per i capelli le sue pulsioni giovanili, quelle che lo hanno accompagnato prima dei grandi fasti, prima dei ritornelloni, quelli più marci e oscuri, in una sola parola: Probot. Era il 2004, e quando comprai il disco e notai la somiglianza della copertina con quelle dei Voivod già ebbi un brivido, scoprire che a disegnarla fu proprio Away, che volete che vi dica, andai in brodo di giuggiole. Gli amici grunger, i proto-hipster, storsero subito il naso, per l’amor di Dio, no, Grohl non può essere un metallaro, che schifo, vade retro, una bugia. Proprio no, nelle linear note il batterista dei Nirvana lo dice chiaramente: “I was looking for something heavy”. Ed heavy fu, l’infatuazione infernale, niente Pavement, niente My Bloody Valentine, scusatelo amici alternativi, ma a lui piacevano Motörhead, Sepultura, Venom, King Diamond, Voivod, Celtic Frost, Cathedral e chissà quali altre mostruosità. Poi magari pure shoegaze e indie, ma intanto “metal up your ass”. E il disco che ne è uscito? Che volete che vi dica, a me ancora oggi, a diciassette anni dall’acquisto, va mulinellare la testa, non più provvista di lunga chioma (ho optato per una sobria cresta semi-mohicana). Suona tutto Grohl, e non lo fa semplicemente riprendendo le band di provenienza dei suoi eroi, cioè, lo fa, ma ci mette del suo, ha idee e concetto, riff di chitarra e batteria (sì, sono riff, come su “Songs For The Deaf”), compone come chi ha divorato tutto il divorabile, e spinge come un forsennato, cavalcando assieme ai suoi eroi di giovane teenager di D.C., facendo bruciare tutto.

Lo psych-doom brutale che ammanta The Emerald Law, con quella belva che è Wino che ci ha fatto volare tutti negli incubi degli Obsessed, un pasticcio cosmico drogatissimo e stentoreo, l’abbattersi violento delle tombe di pietra buttate giù dall’alto della cattedrale di Lee Dorrian nell’incubo di Ice Cold Man (con contributo funebre di sua maestà soundgardeniana Kim Thayil), la moto che sgasa sulla strada rovente del r’n’r di Shake Your Blood con la leggenda purtroppo non più vivente di Lemmy, la guerra totale narrata su Red War dal magistrale menetrello delle iniquità dei conflitti Max Cavalera, Cronos che dispiega le ali nere da padre del black metal sulla nebula d’acciaio di Centuries Of Sin, l’hardcore che torna impietoso e sgorga dal cuore impugnato dai suoi alfieri più incazzati Mike Dean e Kurt Brecht, rispettivamente sulla fiondata Access Babylon e il pestone Silent Spring, o ancora l’industriale scarica di mazzate con cui Tom G. Warrior e Grohl riempiono Big Sky, e ancora le allucinazione punk-thrash-progressive cui ci ha abituati Snake, Dictatorsaurus è supervoivodiana, super melodica, con quel ritornellone catchy e smutandante, testo di protesta, fanculo, bella, come anche l’hard rockeggiata My Tortured Soul, con Eric Wagner sensuale dragone che avviluppa la musica tutta, la chitarra (ancora una volta mr. Soundgarden) che su Sweet Dreams pacchianeggia col Re della Pacchianeria metallara King Diamond e i suoi falsettoni di gran classe. Ma lo vedete quanta roba c’è? Pure Jack Black, un altro metallaro marcio fino al midollo.

Una lettera d’amore, pesante e dura come l’acciaio su cui è incisa a raggi laser sparati da enormi robot alieni. Irripetibile, tanto che Grohl non ci metterà più mano (serializzare significherebbe sfruttare, si diceva), e, nel giro di pochi anni si tramuterà nel Santo del Rock, un frate francescano con la chitarra elettrica, la rockstar buona tutta sorrisi, ma che, musicalmente, pare non avere più un accidenti da dire. Beh, questa è un’altra storia, e, onestamente, non potrebbe fregamene di meno. Vada all’inferno anche il nuovo album dei Foo Fighters.

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