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“8-Way Santa”, un oscuro, sporco pozzo americano

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Grunge was an accident

Kurt Danielson

Mentre il mondo era ancora ignaro di quel che sarebbe accaduto nel settembre del 1991, il grunge stava già accadendo, per sbaglio, MTV stava già affilando le sue belle posate lucenti per divorarne le tenere carni, carni inacidite dal dolore, dal male, dall’essere nati in una città che portava giù, a fondo, lo Space Needle troppo lontano, altri needles troppo vicini, tremendamente vicini. C’era chi era destinato a venir pappato in un sol boccone, finire sui poster, nell’immaginario comune, sulle t-shirt, in film che andrebbero dimenticati, sulle pagine di cronaca (cancellerei pure quelle) e chi, invece, era destinato a restare oggetto di culto, a volte vivente, a volte perso nel flutti del tempo, sepolto da quell’errore. C’erano (e ci sono) i Melvins, da una parte, e dall’altra c’erano i Tad. E i Tad sono il mio culto.

Non solo il mio, per fortuna. Due anni prima del fatidico 1991 il Bloom di Mezzago aveva già aperto le porte a quell’incidente, da una parte coloro che sarebbero finiti nel sancta sanctorum del rocker medio (ma che avevano molto di più che un singolo enorme, un suono enorme e poi dei tour enormi), nel loro elemento naturale, un piccolo club, un piccolo palco, due gruppi di amici. Uno di questi, Tad Doyle, amico vero, da sempre e per sempre, lascia il palco, non sta bene (forse un po’ oltre i “ritualistic daily vomits” di cui parla Charles R. Cross), e quel Kurt canta i brani che diventano culto. “Salt Lick” e “God’s Ball” sono già un culto. Sono malvagi, lerci, troppo sporchi per chiunque, ad MTV non viene nemmeno fame. Beh, che si fottano (citazione di un pupazzo chiamato Fat Ed di una serie proprio andata in onda su MTV). Non sanno quel che si perdono.

Tad Doyle (lui è Heavier Than Heaven, il tour, il titolo del libro), Kurt Danielson, Gary Thorstensen e Steve Wied non sono piacenti, si vestono così, con gli scarponi pesanti e la camicia a quadrettoni perché sono invasati per la cultura redneck, si vede, si sente, si percepisce, non fanno nulla di nulla per nasconderlo. Il grunge è un incidente. La loro musica no, i Tad, non vogliono essere un incidente, vogliono provocarlo. La violenza di fine anni ’80 si tramuta nella melodia lercia dei primi ’90, si trasforma e prende sostanza, quella di “8-Way Santa”.

Il disco che scomparirà, divorato per colpa della censura, quella stessa censura che oggi usiamo come arma indiscriminata per eliminare ciò che ci offende tanto, è la censura che ha provocato danni, enormi. Una copertina sbagliata e addio, giù nel cesso. Una coppia di hippie, lui che strizza una tetta a lei, i colori acidissimi, la cultura del degrado americano piazzata lì, in bella vista, anzi, brutta, che copertina orrenda, è questo a renderla fantastica. Lei non la pensa così, quando entrando in un negozio di dischi si riconosce sbattuta sull’artwork di un gruppo della Sub Pop. I Tad hanno commesso l’errore di non cercare questi due attempati seattleani, cristiani, forse la moda (la moda è un incidente?), e quindi il disco sparisce, arriva una causa, c’è un tour e non c’è quello per cui esiste il tour. È la magia del rock, è lo strazio della censura, è l’inesperienza dei gruppi, è il male dell’arte.

Resta quel che Butch Vig ha registrato, e tornerà, perché le cose non scompaiono mai davvero, in questo mondo, magari restano sepolte, e alla fine, eccolo lì, il culto. “8-Way Santa” è maligno, sordido, un bar fetido in cui ballano i redneck, zoppi, sfigati, pieni zeppi di meth, con i loro camion parcheggiati fuori. Tutto lo schifo d’America si concentra da queste parti, e la violenza, il noise-rock, i pestoni, si fanno belli per uscire una sera a far baldoria, a picchiarsi con gli altri, e nel farlo però indossano il vestito migliore, che la melodia non è detto sia volontà di buttarsi via, a volte può essere l’arma migliore, nascosta nella manica di una giacca logora. Se poi il concetto di singolo, per i Tad, è un brano fatiscente, laido e pesante come Stumblin’ Man, allora il concetto è chiaro: questo posto, la Terra, è un incubo, è abitata da schifosi e noi siamo la loro voce, non li difendiamo bensì li descriviamo. Famiglie allo sbando, minacciosi raffronti con la peste, un tizio che si chiama Jack Pepsi e che la Pepsi stessa vide come un uso infausto del proprio logo, e via, un altro giro di tribunale per un album maledetto. Un album maledettamente bello. Un album marcissimo, un pozzo di inquietudine fatta e finita, che però non finisce appeso al muro di una stanza in bella vista, no, col cazzo, si mette alla guida di un camion della spazzatura e ti rincorre finché le gambe non cedono.

E poi, sapete, nella colonna sonora di “Singles” (lo diciamo? Non tutto ‘sto gran film, in soldoni) ci sono loro pure loro con quella Jinx che non è solo opener di “8-Way Santa”, oh no, è un manifesto, un anatema autoimposto: “I’m a Jinx, bad luck follows everywhere”. Mai ritornello fu più vero. Mai.

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