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I grandi dischi del rock progressivo italiano degli anni ‘70: guida per chi non c’era

Nei primi anni ‘70, il periodo d’oro del rock progressivo inglese, il genere ebbe importanti successi di pubblico anche in Italia. L’Italia fu il Paese in cui gruppi come i Genesis e i Van Der Graaf Generator (VDGG) ottennero riscontri commerciali che altrove arrivarono solo più tardi (nel primo caso), o non arrivarono per niente (nel secondo). Non per niente, una rivista musicale influente  di quegli anni come Ciao 2001 aveva un corrispondente a Londra ma non in California o a New York e, nemmeno questa era una casualità, da noi i Grateful Dead o Lou Reed non hanno goduto la fama di Emerson, Lake e Palmer (ELP). Ma in quegli anni il nostro Paese produsse anche la propria corrente Prog e si parla di Rock progressivo italiano, un movimento nazionale forse inferiore solo a quello britannico. Qualcosa d’importanza analoga si registra, nell’Europa continentale, solo con il Kraut-Rock tedesco.

Il Prog italiano produsse una pletora di artisti che ebbero un importante successo in patria e, nei limiti, anche fuori. Interessante per esempio, il riscontro che viene dal Giappone, paese dove tutt’oggi le storiche prog band italiane si recano in tour. Premiata Forneria Marconi (PFM), Il Banco del Mutuo Soccorso e Le Orme furono i gruppi che cercarono successo anche in lingua inglese. Con il sostegno di etichette britanniche, come Manticore records (che apparteneva agli ELP) e Charisma, pubblicarono dischi nella lingua di Shakespeare, con testi curati da Peter Sinfield (King Crimson, ELP) e da Peter Hammill dei VDGG. Non ebbero grande successo, con la parziale eccezione della PFM che riuscì a piazzare “Photos of Ghosts” al numero 180 delle charts USA e “Chocolate Kings” nella top 20 del Regno Unito.

A distanza di 45-50 anni, il fenomeno va rivisto con il beneficio della prospettiva. “Il rock progressivo e’ musica che spinge i confini concettuali e stilistici oltre” diceva Robert Fripp che, con i suoi King Crimson, fondò il genere. Un movimento, “in movimento” appunto, che cresce e si evolve nel tempo attingendo da qualunque fonte utile allo scopo progressivo. Eppure, per alcuni, il prog italiano si limita a quel gruppo di band che in quegli anni rifacevano il verso a King Crimson, ELP e Genesis, aggiungendovi la tradizione italiana. In genere, figli del beat e/o allievi dei conservatori di musica classica, che in questa musica che veniva da oltremanica vedevano la possibilità di fare qualcosa di nuovo e lasciare un segno.

Ma quegli anni ci diedero molto di più: ci diedero il Neapolitan Power e Lucio Battisti, per esempio. Nel primo caso, l’influenza del jazz e del blues portato sotto il Vesuvio dalla base militare americana; per quanto riguarda Battisti, il genio di un ragazzo di campagna che riuscì a fare una irripetibile sintesi tra la tradizione italiana e tutto ciò che veniva dagli altri Paesi in quel momento. E quegli anni ci diedero anche la fusion derivata da Miles Davis che non sfuggì ai giovani jazzisti nostrani.

Quindi, dopo tanti anni, la mia classifica dei grandi dischi progressive italiani degli anni ‘70 non ricomprende alcuni episodi che tanto piacquero all’epoca, ma che forse sono invecchiati male. Mi riferisco a esercizi di maniera per emuli di Hendrix e orchestra, o a manifesti politici poco condivisi ai giorni nostri. L’idea è di valorizzare grandi dischi, certamente “progressivi”, che possano sembrare più comprensibili ai giovani che all’epoca non c’erano.

10. Alan Sorrenti – Aria (1972)

Prima di essere il figlio delle stelle, Alan Sorrenti era un “progger”. Nato a Napoli da madre gallese, sentiva l’irresistibile attrazione della musica di oltre manica. E si sente nella sua prima opera solista. Jean Luc Ponty, della Mahavishnu Orchestra, onora con il suo violino l’eterea title track di 19 minuti, sospesa tra il jazz, le percussioni mediterranee di Tony Esposito e la grande prova vocale di Sorrenti. Il nostro Alan possiede effettivamente delle doti canore degne dei piu’ grandi: Tim Buckley (padre di quell’altro mostro di nome Jeff) e’ forse il paragone piu’ calzante. “Vorrei incontrarti” e’ il singolo tratto dall’album: 4:56 minuti di un piacevole folk rock acustico, un po’ Lucio Battisti, un po’ Cat Stevens.

9. Perigeo – La Valle Dei Templi (1975)

I Perigeo emersero dalla scena jazz romana degli anni ‘70, attorno al bassista Giovanni Tommaso, al batterista Bruno Biriaco e al tastierista Franco D’Andrea. Ai 3 si unirono il sassofonista veneziano Claudio Fasoli e il chitarrista newyorchese Tony Sydney, allievo del conservatorio di Firenze. “La Valle dei templi” è il quarto disco, il più maturo, che si permette di ospitare Tony Esposito alle percussioni, un nome che si andava imponendo sulla scena musicale italiana di quegli anni. I Perigeo sono la nostra Mahavishnu Orchestra: grandissimi musicisti al servizio di una musica che nasce dal jazz per farsi fusion, senza porsi limiti nelle contaminazioni. Si ascolti la title track che nasce e si mantiene eterea per due minuti per poi dar vita a un tema, che potrebbe essere di Wayne Shorter, proposto dal sax, per poi sfociare in un assolo di chitarra che fa il verso a Mc Laughlin. Per poi terminare con gorgheggi del sintetizzatore che potrebbero ricordare Chick Corea. Ma questi sono solo punti di riferimento, campioni, che i Perigeo non imitano e solo usano per creare una musica originale: jazz d’oltre oceano con sensibilità mediterranea, è solo uno dei primi riconoscimenti di un grande movimento che in Italia non si sarebbe mai esaurito.

8. Napoli Centrale – Napoli Centrale (1975)

Il frontman della band, James Senese a sax e voce, è il perfetto figlio della base militare americana di Capodichino, o meglio di un soldato americano e di una donna locale. Nasce cosi’ il Neapolitan Power; un misto originale di jazz-blues-rock e mediterraneo che Pino Daniele (bassista nel 1978 dei Napoli Centrale) porterà al successo commerciale negli anni ‘80, ma che si consacra alla storia con questo disco. Accanto a Senese, si distingue Franco Lo Prete che suona la batteria da jazzista virtuoso e scrive testi in napoletano che raccontano storie di proletariato locale. Il disco fa l’eco ai Weather Report di Zawinul e Shorter e a Miles Davis, con molti ritmi funky. “Jazz-rock alla pummarola”, con nulla da invidiare a quello USA. Non perdetevi “A gente ‘e Bucciano” che sfocia con un botta e risposta R&B tra sax e piano elettrico di una bellezza speciale.

7. Le Orme – Felona e Sorona (1973)

Concept album con un tema di fantascienza, come piaceva in quegli anni in cui l’immaginario collettivo era ancora dominato dal recente sbarco sulla luna. Ma anche musica libera da schemi, in cui l’amore per la musica classica del tastierista Tony Pagliuca si fonde con le armonie e virtuosismi jazzistici della band e le melodie cantate da Aldo Tagliapietra con quella sua voce sempre sotto le righe e priva di forzature. Del disco se ne fece una versione in inglese, con testi di Peter Hammill (Van Der Graaf Generator), per il mercato britannico. Si tratta del momento piu’ alto del terzetto veneto che con “Collage” (1971) aveva fatto probabilmente il primo disco pienamente prog italiano e con “Uomo di Pezza” (1972) avevano conquistato il disco d’oro. Faranno il bis con “Felona e Sorona”, un disco profondo nei testi e nelle musiche che ancora può sorprendere gli ascoltatori nuovi e più giovani.

6. PFM – Storia Di Un Minuto (1972)

La band che forse più nel mondo viene identificata con il prog italiano anni settanta, esordì con questo bellissimo album. E basterebbe la stranota Impressioni di Settembre per consegnarlo alla storia della migliore musica. Importante anche per essere il primo disco di una band, non intitolato a un artista singolo, a raggiungere il numero 1 in Italia. Per certi versi questo disco è un omaggio a “In the Court of the Crimson King”: mellotron a pacchi, i flauti, gli arpeggi e i fraseggi di chitarra incredibilmente frippiani, persino l’incedere della batteria o le linee di basso, le escursioni heavy e fusion mischiate insieme alla “21st Century Schizoid Man” (È Festa), i rulli di tamburi presi di forza dalla title-track crimsoniana (Dove…quando…) e potrei continuare. È ovvio che i 5 della band milanese avevano imparato a memoria l’album d’esordio dei King Crimson. Ma ne forniscono una versione non da meno, che tutt’oggi gode di una reputazione stellare anche presso la critica internazionale (4,5 stelle su allmusic.com).

5. Area – Crac! (1975)

Se con i Perigeo ti puoi pensare in qualche fumoso jazz club di Manatthan frequentato da intellettuali e bourgeois locali, con gli Area ti dovresti immaginare in qualche locale underground, di un qualunque paese occidentale, dove si sperimenti senza schemi. Un po’ Soft Machine e scuola di Canterbury, un po’ R&B, un po’ Miles Davis, un po’ Frank Zappa, si tratta di musicisti straordinari che, ognuno nei propri strumenti (voce compresa), hanno stupito il mondo. La parola d’ordine era sperimentare, con un gusto della ricerca profondamente intellettuale che, come si usava all’epoca, si riempiva la bocca di proclami politicamente “rivoluzionari” che oggi fanno un po’ sorridere, o annoiano. Ma non annoia certo la musica. Ascoltate L’uovo di colombo o Gioia e rivoluzione e, se non siete intellettuali, semplicemente spegnete il cervello e godetevi la libertà dai generi e dagli schemi che animava questi ragazzi, completamente avanti per i loro tempi.

4. Tony Esposito – Tony Esposito (1975)

La World Music era già in Italia nel 1975? Se non c’era, allora l’ha portata Tony Esposito. Nella title track, Esposito e i suoi amici giocano con le percussioni, le voci, i sintetizzatori, i legnetti, il pianoforte acustico e elettrico, creando un tessuto sonoro da free jazz etnico su banali loop di basso. Il risultato è ipnotico, quasi psichedelico. Per poi sfociare in un tema fusion, “cantato” dal piano elettrico prima e dal sax poi e sostenuto da percussioni etniche sotto a basso e batteria sincopati. Strepitoso. In tutto il disco, Esposito dimostra di non essere solo un virtuoso conoscitore delle percussioni più disparate, come testimonia la sua lunga carriera di turnista per i principali artisti della musica “pop” italiana, ma anche un raffinato impressionista, abile nel concepire tele sonore con l’aiuto fondamentale qui del tastierista italo-britannico Paul Buckmaster. Qui siamo oltre il rock, il jazz, il prog o la fusion. E’ già musica universale e senza confini. Autenticamente progressiva. Un capitolo meraviglioso, forse il migliore del “Neapolitan Po.

3. Il Volo – Essere o non essere? Essere! Essere! Essere! (1975)

Forse l’album più sottovalutato della musica italiana di quell’epoca, per una band formata da 6 grandi musicisti che avevano lavorato nella prima metà del decennio con Battisti e Mogol. Ed è proprio la loro Numero Uno che li pubblica, con l’intento di “andare in America e spaccare il culo a tutti quanti”. Ma l’operazione fallì: non solo non andarono in America, ma nemmeno in Italia andarono lontano. L’insuccesso del primo disco fece allontanare Mogol dal progetto, lasciando questo secondo disco senza testi, sostituiti alla buona da vocalizzi vari. In retrospettiva, ne uscì un capolavoro, all’epoca ignorato. Si sente molto Santana (specialmente Caravanserai), molti ritmi sincopati e molta fusion (Return to Forever sopra a tutti), in viaggi sonori mai scontati e che alla lunga entrano dentro l’ascoltatore, anche grazie a momenti d’inaspettata bellezza melodica. Il disco vendette ancor meno del pur ottimo eponimo precedente; forse, non aiutò venire dalla scuderia del “fascista” Battisti e non invocare la rivoluzione. E i 6 si dispersero, chi continuando a fare il turnista ad alti livelli (Gianni Dall’Aglio che contribuirà a rendere immortale Pensiero Stupendo di Patty Pravo), chi provando carriere soliste parzialmente fortunate (Alberto Radius), chi sbancando con le sigle dei cartoni animati giapponesi (Vince Tempera, cui i pre-adolescenti dell’epoca sono grati per la sigla di Ufo Robot).

2. Goblin – Suspiria (1975)

Forse il gruppo prog italiano che ha avuto maggiore successo, in patria e all’estero, grazie alle colonne sonore dei film di Dario Argento e, forse, grazie al fatto di fare musica strumentale e non avere barriere linguistiche. Sia i film che le colonne sonore sono acclamati da fan e critica e godono di una popolarità che arriva fino agli USA e all’estremo oriente, dove le attuali incarnazioni della band (ce ne sono ben 3! Segno che l’interesse del pubblico permane), continuano ad andare in tour. I Goblin sono fortemente influenzati da King Crimson, Mike Oldfield, Soft Machine e dai grandi nomi della fusion. Ascoltate Blind Concert e ditemi se non fa pensare al Jeff Beck di Blow by Blow. Ma, complessivamente, quello dei Goblin è uno stile originale e eclettico, fortemente riconoscibile, grazie anche a riff che sono ormai nell’immaginario collettivo non solo italiano. La fusion e la classica si sposano alla perfezione, in composizioni formalmente perfette, armonie e inter-play strumentali accattivanti, temi che restano impressi ed esecuzioni tirate e emozionanti. E anche tanta sperimentazione e teatralismi al servizio delle immagini. Brividi di terrore lungo la schiena mentre si guarda il film e di piacere, mentre si ascolta il disco. Difficile scegliere il migliore tra “Suspiria” e il precedente “Profondo Rosso” (1975) che non inserisco nella mia Top Ten solo per non essere ridondante. Ciò che forse rende “Suspiria” speciale è sapere che, diverse sue parti, nacquero dalla richiesta di Dario Argento di avere della musica già composta prima di girare le scene: la colonna sonora che ispira il film e non più il contrario.

1. Lucio Battisti – Anima Latina (1974)

Lucio Battisti è un fenomeno a parte, genio non sempre compreso della nostra musica. Guida questa classifica, così come dovrebbe, a mio parere, guidare la classifica del miglior disco pop e del miglior disco rock italiani, con altri album. Battisti, pur essendo un ragazzo di campagna, aveva introiettato musicalmente gli stimoli che venivano dal mondo anglosassone, prima e più di tanti suoi colleghi romani o milanesi. Wilson Pickett e il sound Motown erano una influenza ovvia, già in “Un’avventura” (1969). Ma già in “Amore e non amore” (1970) si va oltre: un concept album (tra i primi in Italia), con larghi tratti di sperimentazione e psichedelia che non poteva che venire dal Regno Unito. E da qui è un crescendo in cui l’artista di Poggio Bustone, dimostrando una sempre crescente cultura ed eclettica musicale, nonché una incredibile capacità di assimilare i sound più disparati, giunge a confezionare il suo capolavoro nel 1974: “Anima Latina”, un “concept album imperfetto”. Una miscela incredibile di sonorità “black”, latine, mediterranee, germaniche e anglosassoni. In “Anima Latina” c’è il Brasile dove Battisti e Mogol erano stati in viaggio, c’è la fusion jazz con tanti tempi dispari (risulta che Herbie Hancock fosse un ascolto prediletto dei musicisti durante le pause in studio), ma anche ritmi R&B e iberici, ci sono canti e melodie di chiara impronta nostrana, ma anche costruzioni “orchestrali” alla Yes/ELP, sintetizzatori da Kraut-rock e atmosfere alla Pink Floyd/Yes. Per non parlare del lungo e intenzionale lavoro in fase di missaggio, pensato da Lucio stesso per favorire il ruolo attivo dell’ascoltatore. Più “prog” di così, impossibile. E immagino sia solo per l’abitudine di catalogare gli artisti entro generi impenetrabili (quindi Battisti sarebbe pop o poco più) che “Anima Latina” non compare mai nelle rassegne e nelle classifiche dei principali dischi prog italiani o, persino, mondiali. “Anima Latina” fu stroncato dalla critica dell’epoca. D’altronde, vendette “solo” 250.000 copie, poco per Battisti. Performance deludente dovuta anche alla mancanza di singoli. Ma il disco è, oggi, osannato dalla critica e considerato l’apice della sua avventura artistica. Cosa daremmo per ascoltare un remix di Steven Wilson (non che quello originale non ci soddisfi), il genio che ha rivitalizzato tanti capolavori del prog classico. Gli eredi di Battisti non lo consentiranno mai, sbagliando perché la musica non appartiene all’artista (i diritti d’autore, quelli sì).

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