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LizZard – Erode

2021 - Pelagic Records
progressive rock

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Tracklist

1. Corrosive
2. Blowdown
3. Haywire
4. Flood
5. Hunted
6. The Decline
7. Eroded
8. Usque ad TERRAM
9. Blue Moon
10. Inertia
11. Avalanche


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Gli anni ’90 bruciano tutto, estendono il proprio dominio nel futuro e nessuno può farci nulla, se non lasciarsi lambire da quelle spire che cambiarono il volto della musica alternativa, nata nell’alveo marcescente del decennio precedente, evolutosi all’estremo fino a ripiegarsi su se stesso. Un’arma a doppio taglio, un reame fatato che nasconde fin troppe insidie.

La verità è che non tutti coloro che tentano di recuperare le sonorità degli ultimi dieci anni del Secolo Breve sanno come evitare la trappola dello stantio e già sentito, e molti dei gruppi che invece hanno imperversato tra il 1990 e il 1999 oggi battono la fiacca, incespicando nei tranelli che loro stessi avevano teso alle generazioni future.

Non sono in molti che, invece, questo timore non l’hanno sperimentato, né il dolore di farsi del male andando a confrontarsi, giusto lo scorso anno ne abbiamo contati sulle dita di una mano (Nothing, Loathe, Greg Puciato e Metz, bonus nel recente passato i Blis., che vorrei tanto tornassero) e chissà quanti ce ne saranno quest’anno. I primi a presentarsi all’appello sono i francesi LizZard, non proprio di primo pelo, all’attivo tre album tra il 2012 e il 2018, di cui uno prodotto nientemeno che da Rhys Fulber (per chi non lo ricordasse fondatore dei Front Line Assembly e partner in crime di lunga data dei Fear Factory), e lo fanno già più forti di tanti altri.

Se già in passato si sono distinti per la loro strapotenza, attirando le attenzioni di Terry Bozzio, High On Fire e Adrian Belew, oggi approdano a testa alta nel regno di Pelagic Records e lo fanno forti di “Erode”, un album profondo come l’oceano, duro come le montagne, in poche parole: devastante. Quello che lascia attoniti del power trio composto da Katy Elwell, William Knox e Mathieu Ricou è la capacità di intessere melodie riconoscibili (che oggi come oggi è davvero un tratto distintivo non da poco), resistenti, di una durezza abbacinante e, allo stesso tempo, nebbiose e traslucide, penetranti.

È progressive, quello che i tre intessono nell’aria, e riescono dove Chevelle e Taproot non riuscirono a portare a termine sebbene le ottime premesse, ossia far coesistere una violenza pesante come ghisa a soluzioni cristalline, sporcate di malinconia e riflessi lunari. Quando l’elettricità sovrasta tutto e si fonde alle follie polirtimiche di Katy (il cui apporto magistrale da’ un tocco invincibile alle composizioni) pare di perdere la testa in seguito ad un frontale: Flood è una pressa idraulica memore degli unisoni a sei corde di Belew e Fripp che abbatte i muri, Blowdown si espande rutilante cambiando volto di continuo, da assalto frontale a introspezione ferale, Hunter un’apnea math rock dalla quale si risale solo per rendersi conto dei nervi del collo carbonizzati per il troppo ondeggiare e Haywire, con le sue chitarre acustiche che anziché alleggerire il carico lo aumentano di svariate tonnellate, è una cavalcata selvaggia nel deserto sullo sfondo di un tramonto che incendia l’anima.

La voce di Ricou prende posto dove la sua chitarra non intaglia lo spazio, ramificata di prepotenza in un terreno che fu di Tool e Queens Of The Stone Age, ma senza per questo esservi totalmente riconducibili, e da qui prendono vita quelle che potremmo definire ballate, la vera spina dorsale di tutto il disco. Una su tutte Avalanche, con il basso che aggroviglia le melodie, districate dall’aspirazione uperuranica del resto, in un crescendo che è un’onda d’acqua scura. The Decline respira ad ampie boccate di chitarra tagliente, stese su una sezione ritmica roboante agganciate ad un ritornello lanciato dritto in cielo. Melanconiche interazioni strumentali si slanciano nell’algida Blue Moon, tocco carezzevole e grido disperato di pezzi di vita perduti per strada.

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