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“Maxinquaye” di Tricky, cronaca di un’infelicità annunciata

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Nel febbraio 1995 l’Italia pensava ai parametri del trattato di Maastricht come ai vincoli farlocchi della Cassa del Mezzogiorno. Il rpspodi lì a poco ci avrebbe reso europei a calci in culo mentre ancora pensavamo che l’Europa fosse il bikini sgambato delle tedesche che bevevano birra al ritmo di Datura o Corona nelle estati di Cattolica. Mentre il sovranismo poteva ancora confondersi con la Meravigliosa Creatura di Gianna Nannini, vi era ancora il diritto all’infelicità o alla militanza non retribuita. Rave illegali, rimasugli gothic e collettivi hip-hop fabbricavano l’idea di un decennio incomprensibile, del quale l’analisi più profonda giunge all’impossibilità della sintesi come cifra stilistica. Per gli scettici il suggerimento è contattare il sottoscritto e magari leggersi l’ottimo “Happycracy” di Edgar Cabanas e Eva Illouz che analizza con precisone questo passaggio epocale all’obbligo alla felicità degli anni 2000.

Sì, va bene, tutto fico, ma quando parliamo del disco di cui queste righe dovrebbero essere un modesto Festschrift occasionale? In realtà non abbiamo fatto altro finora, tra l’altro autorizzati dallo stesso Tricky che a più riprese nel corso della sua maturità artistica ha ripudiato “Maxinquaye”, la sua creatura più umbratile e magnetica; da colpo d’ascia tra il post-tutto e il pre-millennio nel quale tutto sembrava crogiolarsi in una lunga stagione nella quale il tempo si è fatto soglia.

Per i meno sensibili al richiamo della lingua poetante presumo sia possibile parlare anche della dilazione lacerante come definizione di quella sospensione temporale chiamata anni novanta. Ed è qui che entra in scena questo misterioso disco che non rappresenta nient’altro che s stesso, vale a dire l’impossibilità di un accesso analitico agli anni novanta, non un decennio, ma una attesa. Se il problema di qualche anno prima era restare in vita tanto che non si esce vivi dagli anni ’80 è più un trattato che una canzonetta, il problema di Tricky era esattamente cosa fare quando siamo gli unici sopravvissuto in un mondo di macerie. A chi crede che il sottoscritto abbia indossato degli occhiali acquistati in qualche facoltà di filosofia dell’Italia Meridionale consiglio di rileggere pochi versi di Ponderosa, che per per eccesso di zelo riporto io stesso:

See in black and white, feel in slow motion
I drown myself in sorrow until I wake up tomorrow
The illusion of confusion; it’s not from where I am sat
(Recircle, recycle, resemble me)

Non ci sfugge che gran parte della desolazione la dobbiamo alla pasta vocale di Martina Topley-Bird alla quale il disco deve gran parte del suo grip emotivo, così come Tricky la sua primogenita, concepita proprio nei mesi di elaborazione dell’album. La ventenne Martina permette alla cupa animosità delle tracce di distendersi lungo linee molto distanti da quelle praticate dal resto degli amici di Bristol con i quali i due artisti avevano condiviso molte esperienze. Nel 1994, un anno prima esatta, usciva “Dummy” dei Portishead che con “Maxinquaye” concorrerà a ridisegnare i confini di quello che era possibile far dire a ciò che era già stato detto; oltre ovviamente a essere destinati a divenire le denotazioni privilegiate di una delle etichette più inutili della storia della storia della musica, vale a dire quella di trip-hop.

Sicuramente più utile quella di Bristol Sound, nella quale si condensa la pregnanza territoriale, ovvero geografica, della prima grande ondata dell’esperimento globale postmodernista per eccellenza. Con ogni evidenza faccio riferimento all’uso estenuante dei loop (spesso gli stessi) e dell’inesauribilità dell’interpretazione per svincolare ogni nota dal suo contesto. Alzi la mano chi non ha colto il riferimento al noto furto a Ike’s rap II operato sia dai Portishead in Glory box che da Tricky a un solo anno di distanza nella imperitura elegia per perdenti Hell Is Around the Corner. O l’orazione funebre concepita in carcere del cattivo ragazzo Tricky per la defunta madre Maxime Quaye e pronta per i nuovi cenotafi del mondo contemporaneo, i club londinesi.

Si capisce bene allora, adesso sì, perché Tricky abbia esposto il proprio album più viscerale come si fa con i figli indesiderati; pensare alla voce di Allison Goldfrapp nel manifesto Pumpkin’ nel 2005 usata per accompagnare una cena di qualche stronzo a KM 0 in un Wine Bar stile industrial. Significa di fatto disattivarne non solo la potenza, ma renderla BRUTTA. Proprio così. Ed è esattamente in questo senso che non è possibile separare “Maxinquaye” dalla sua storia; di più, “Maxinquaye è la storia dei suoi effetti. Quelli visibili nella ricezione musicale e quelli invisibili in quella generazione degli anni Novanta che ancora è alla ricerca della propria infelicità, lì proprio dietro l’angolo.

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