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Back In Time

“Call To Arms”, l’ultimo disco dei Sick Of It All

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Quando ritorniamo dopo molto tempo nelle case di vacanza, di solito utilizziamo, per i primi due pasti, le cose che troviamo già lì, nelle dispense o sugli scaffali, lasciate dall’ultima volta che ci siamo stati: cuciniamo con ciò che mette a disposizione la dimora. Magari il prezzemolo è scaduto da due anni ed ogni volta ci ripromettiamo di comprarne altro, dedicato esclusivamente a quella casa, ma puntualmente ce ne dimentichiamo, sul più bello. Quando stiamo per partire, abbiamo l’ansia di tornare e dobbiamo stilare una lista delle cose che servono per dare un senso a quell’abitazione. Le spezie, comunque, si possono utilizzare anche se sono scadute, dicono. Al massimo perdono un po’ di sapore, dicono. Sì, ok, ma dopo tre anni?

Arriviamo e apriamo tutto, sentendo l’odore di muffa e avvertendo un freddo che non ci è mai appartenuto, un freddo che troviamo sia d’inverno che d’estate, che sa di abbandono borghese alle attività di ogni giorno, che svolgiamo, che odiamo, che ci danno da mangiare. Spalanchiamo le finestre anche se fuori si gela. Apriamo l’acqua e il gas per riscaldarci, anche se sappiamo che passeremo solo pochi giorni in quelle case, anche se fuori fa caldo e la gente inizia a rimanere fuori sino a tardi. 

Durante il tragitto, poi, passiamo davanti a distributori di carburante che in città non vediamo e ce ne meravigliamo, come se ci trovassimo su un altro pianeta, forse un po’ più retrogrado rispetto a quello quello in cui viviamo ogni giorno. Ce ne meravigliamo, però, in modo supponente e non sano, non naïf o sprovveduto quanto potrebbe bastare. Alle volte, per raggiungere quei luoghi, da giovani, abbiamo saltato qualche concerto, ed era facile che ciò accadesse in quanto, vent’anni fa, di concerti ce n’erano tantissimi: ogni weekend, dal mercoledì alla domenica, senza sosta.

Ci si ritrovava fuori dai locali e dai Centri Sociali a far fumare le gole e a farle congelare assieme all’alcool, si discuteva sino alle prime luci dell’alba di cosa poter organizzare e su che gruppo andare a vedere la prossima settimana. Snobbavamo chi non ascoltasse i gruppi che andavamo a vedere e supportare e chi conosceva, per esempio, solamente l’ultimo album dei Sick Of It All o degli altri gruppi newyorchesi: erano gli anni della seconda ondata del punk, che coinvolse in larghissima parte la scena hardcore che nei primi anni ’90 si era distinta per idee radicali e suoni al limite. I cosiddetti kids avevano iniziato ad ascoltare di tutto e come situazione non ci andava bene. Noi, i dischi, li prendevamo ai concerti, avevamo altri giri, altri interessi, altre ambizioni rispetto al pogare e al bere birra, al chiedere l’autografo sul disco o all’aspettare davanti ai cancelli.

Girava una videocassetta, in casa. Era il duemila. Non so di chi fosse, non era mia. Vi era registrata una manciata di concerti live di gruppi punk e hardcore, spezzoni di concerti per la precisione. I Sick of it All erano ripresi sul palco di un Warped Tour dell’anno prima ed iniziavano con due canzoni che non avevo mai sentito: Falter e Sanctuary. Le suonavano prima di Buil to Last, per intenderci. Dovevano essere diventate importanti senza che me ne accorgessi. Possedevo già “Scratch the Surface” e, appunto, “Built to Last”, e non immaginavo avessero inciso un disco nuovo dopo il precedente, del 1997. Lou Koller pareva arrancare, durante l’interminabile fine di Closer, e mi domandai subito cosa fosse quella “roba” e perchè loro, i Sick of it All da nuiorksite si trovassero su quel palco, assieme a gruppi inesorabilmente più melodici e conosciuti a livello commerciale: mi domandai quale fosse il motivo per il quale, soprattutto, avessero scelto la Fat Wreck per il disco che stavano andando a presentare in quel tour, dopo un decennio di militanza tra le fila di Combat ed Equal Vision, a condividere le uscite di Circle Jerks, Agnostic Front, Bane e Converge. Di solito, guardavo le videocassette seduto sul parquet che mio padre ossessivamente lucidava e faceva ri-laminare ogni anno, facendo traslocare tutto il salotto in anticamera e in cucina per una settimana. Un parquet flottante a listelli romboidali e scuro.

Feci andare avanti veloce le immagini, per saltare qualche pezzo, e dopo un’illuminante Scratch the Surface presentarono la canzone che dava il titolo al loro disco appena uscito: Call to Arms. Riconoscibile sin da subito, senza andare a leggere il booklet, mi strappò un sorriso. Erano davvero quelle le canzoni dell’ultimo album dei Sick of It All? Riavvolsi la cassetta per tornare ancora una volta all’inizio della canzone, di quella canzone in particolare. Era così facile capire quel messaggio, nemmeno tanto celato, tra le movenze dei quattro sul palco? Ebbi la conferma vedendoli dal vivo qualche mese dopo, quando già era diventato d’obbligo dedicare Sanctuary a tutte le ragazze presenti al concerto. Non erano invecchiati come un pugno di spezie in una casa di villeggiatura, lasciate lì a diventare inutili: il loro messaggio era diventato più chiaro, senza mutare aveva assunto la forma di quello che l’hardcore di quegli anni si stava proponendo di comunicare. Anche se Let Go può apparire come una copia sbiadita di Built to Last e il basso di Potential for a fall non si avvicina nemmeno alle sprangate assestate da No Cure.

Nonostante non vi sia al suo interno un anthem (l’unica che possa avvicinarsi credo sia Pass the Buck) che tutti gli newyorkers possano cantare come avveniva ad ogni loro concerto dopo l’uscita di Step Down, “Call to Arms” rappresentò così il mio modo, autodidatta, di difendermi dalla violenza che mi aveva trasmesso l’old school hardcore durante gli anni, facendomi comprendere molti brani addirittura precedenti ai loro due dischi che possedevo. Mi fece capire come anche quel genere potesse essere soggetto a cambiamenti, senza presentarsi come “-post qualcosa” di vagamente alternativo. Scongelandomi la gola, lasciata lì per troppo tempo, in macchine umide, sporche, incastrate nei parcheggi davanti ai locali mentre volevo ritornare a casa o saltare, qualche volta, un concerto. Diventando così, per sempre, l’ultimo disco dei Sick of It All.

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