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Retrospettive

Aerodinamiche memorie robotiche: retrospettiva sui Daft Punk

Figli legittimi della disco music, folgorati in giovane età dalla techno di Detroit, svezzati da un apprendistato in consolle ai rave party. Cercatori d’oro tanto tra i solchi impolverati di un vinile, quanto in studi milionari circondati dai meglio pagati professionisti del settore, l’eredità dei Daft Punk è ben più consistente di una manciata di motivetti memorizzabili in due secondi e ballabili di sicuro impatto. Sulla genesi delle loro fortune, nonché su tutta una serie di polemiche (ça va sans dire: sterili come un covo di vipere) che li ha sempre accompagnati, abbiamo già ampiamente tirato le fila in un articolo dedicato al loro esordio “Homework”. Il resto è già Storia? Probabilmente, ma siamo logorroici.

Avrebbero potuto accontentarsi di avere indelebilmente impresso, sull’ultima decade del secondo millennio, una delle sue hit più riconoscibili e iconiche. Invece Guy e Thomas decisero di pigiare in maniera ancora più decisa l’acceleratore in direzione della loro, peraltro già piuttosto prominente, vena pop. Già che avevano dato fondo al know how maturato sui dancefloor di mezza Europa, perché non fare un passo a ritroso, fino alla musica della loro infanzia? Ovviamente filtrata attraverso quella sensibilità robotica già divenuta loro cifra stilistica. Se la martellante One More Time poteva dare, a ragion veduta, l’impressione di trovarsi davanti al nuovo corso della dance casalinga sdoganata pochi anni prima, a disattendere ogni aspettativa (mai tale espressione potrebbe essere usata con accezione più positiva), provvede l’assolo in tapping di Aerodynamic. Something About Us, Face To Face, Digital Love (tra l’altro, jingle di MTV per lungo tempo) costituiscono un significativo recupero della forma canzone, arrangiata sì con gusto decisamente retrò, ma lasciando che le nuove possibilità consentite dalla rapida evoluzione delle strumentazioni elettroniche, le rendessero inequivocabilmente figlie del proprio tempo. Comunque sia il funk continuava a regnare sovrano, istigando movimenti scomposti e desiderio di fianchi femminili (ammesso siano quelli a piacervi, chiaramente in pista ognuno cerca ciò da cui si sente attratto), sugli irresistibili groove di Voyager, Crescendolls e Harder, Faster, Better, Stronger. “Discovery” non era ancora stato mandato in stampa che già il duo parigino stava volando a Tokyo per sottoporlo al proprio idolo Leiji Matsumoto, creatore di Capitan Harlock e del Galaxy Express, nella speranza approvasse l’idea di utilizzarlo come colonna sonora di uno dei suoi cartoni animati. Come noto tutto andò a meraviglia e il lungometraggio che ne uscì, “Interstella 5555”, fu presentato in anteprima addirittura al festival di Cannes. 

Consolidato lo status di superstar internazionali, acclamati ovunque come padrini del french touch, attesi al varco per confermare o smentire le ottime premesse. Con le adorate drum machine di casa Roland sempre al loro posto, Christo decide di dare fondo a tutto il proprio amore per le sei corde (ricordiamo che il primo tentativo di carriera musicale del producer, fu in forza a un gruppo rock). Decisamente più minimale del precedessore, cambi di marcia, stratificazioni sonore al limite dell’inintelligibile e uso massiccio di violente distorsioni a costituirne regola e non eccezioni, “Human After All” è indubbiamente un lavoro più ostico dei suoi predecessori. Forse è anche per questo che all’epoca la maggior parte della critica si dimostrò impietosa nei suoi confronti. Eppure sono dell’idea che chi riesca a non muovere nulla quando il sottofondo è Robot Rock, forse farebbe meglio a farsi controllare le articolazioni per vedere se sia tutto a posto. L’asse Berlino-Detroit-Parigi interseca di prepotenza le traiettorie zigzaganti di The Brainwasher, Technologic e Steam Machine. Television Rules The Nation pare messa lì al solo scopo di sopperire alla mancanza di un anthem degno di questo nome, categoria apparentemente fuggita altrove con gli anni ’90. Non potrebbe esserci miglior corollario al concetto espresso dal titolo dell’album, della chiusura affidata a Emotion. La trionfale tournée che ne seguirà, verrà immortalata su “Alive”, operazione indubbiamente pomposa e auto celebrativa, ma piuttosto efficace nel restituire l’idea dell’atmosfera gaia e festaiola che si respirava ai live set della coppia in quel periodo.

Ormai leggende viventi a tutti gli effetti, con tutto ciò che ne consegue, compresa l’odiosa abitudine di rimestare nel torbido dei giorni passati quando quelli presenti, non forniscono evidenze sufficienti per screditare senza remore. Un motivo in più per ostentare il fatto ci si nasconda sotto un elmetto che non lascia trasparire nulla della propria fisionomia, un po’ come a dire: “Guarda, guarda quanto sono turbato dal tuo fango, se ci riesci”. A chi importerebbe mai di tornare in studio a faticare, con tutte le porte già aperte e un pubblico di fedelissimi disposti a sperticarsi in lodi anche davanti ai tuoi peti? Però ecco, se ti chiama la Disney, ovviamente mettendo sul tavolo una consistente pila di verdoni freschi di stampa, un pensierino magari finisci per farlo. La colonna sonora del sequel di “Tron”, caposaldo per chiunque sia cresciuto con l’estetica degli anni ’80 a tutto schermo (quindi Daft Punk compresi), avrà difficilmente soddisfatto i fan affamati di novità. Il motivo in realtà è molto semplice: la ricerca di nuove hit spacca classifiche, doveva essere necessariamente abbandonata in favore di quella di atmosfere adatte ad accompagnare le immagini del film. Missione compiuta, su questo c’è davvero poco da sindacare. Anche se, almeno da parte mia, la sensazione si potesse osare di più, è sempre stata forte. 

Arriviamo ora alle note dolenti (in tutti i sensi). Preceduto da mesi di massiccia campagna promozionale (“offensiva totale su tutti i fronti” renderebbe meglio l’idea…), “Random Access Memories” fece presto a rivelarsi molto hype e poco arrosto. A partire dal tormentone estivo Get Lucky, cui poco servì scomodare Pharrell e addirittura uno dei capi indiscussi (e indiscutibili) della disco music, Nile Rodgers. Ad ogni modo la statuetta per il cameo più inspiegabile, spetta senza dubbio al compositore Giorgio Moroder, chiamato a introdurre e mettere le mani su ben nove minuti di puro nulla. Non si sa se imputare la cosa a un vuoto d’idee o a un repentino mutamento dei tempi, ma sta di fatto che né a Lose Yourself To Dance, né a Istant Crush, riuscì di bissare l’impresa dei “fratelli maggiori” di distinguersi nettamente nel marasma delle programmazioni radiofoniche. Non c’è davvero ospitata d’essai  (Paul Williams) o furbesca (Panda Bear) che riesca a fare la differenza: su tutto svettano i quattro, tumidi, trascinanti minuti e mezzo di Give Life Back To Music, isola felice da preservare gelosamente in un oceano di sprazzi d’idee telefonatissime, spalmati svogliatamente su tutto il resto del disco. 

A meno che non ci leggiate dalla luna, dello scioglimento saprete già tutto. Trarre conclusioni su un nome tanto altisonante, non è facile come potrebbe sembrare. A ben pensarci, hanno ragione i loro detrattori irriducibili: i Daft Punk non hanno inventato nulla. Hanno però contribuito in maniera significativa a reinventare la musica da ballo, entrando tramite essa nella memoria collettiva con una prepotenza e una riconoscibilità a dir poco rare. Hanno rinverdito la fama di Matsumoto (sia ben chiaro: in Occidente. In Giappone non ha mai, giustamente, smesso di essere indicato come maestro di stile. Ci tengono agli artisti, loro), senza esagerare uno dei mangaka più influenti del XX secolo. Forse però, il loro merito più grande è stato creare una sorta di zona franca: se il dj mette una traccia con la loro firma sopra, di scendere in pista a ballare o almeno, muoversi come riescono, si vergognano solo i casi più gravi e inguaribili di timidezza. 



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