Sarai come il rimorchiatore che aiuta le barche ad attraccare in sicurezza in condizioni di mare agitato? O sarai come un giocatore egoista che terrà per sé quella fottuta palla ogni volta che gli capiterà tra le mani? Sarò il collante che tiene insieme tutto il disco. Sarò il bassista. Sarò Mike Watt.
Il 1994 è stato uno degli anni campali per la musica rock alternativa. Nel corso di quei dodici mesi sono stati pubblicati dischi che da lì a poco sarebbero diventati vere e proprie pietre miliari, dischi e canzoni che non solo ci hanno aiutato (e tuttora ci aiutano) a scandire il cammino nella selva oscura della nostra musica preferita, ma che hanno contribuito a forgiare prima e saldare poi, l’anello di congiunzione tra rock alternativo e rock mainstream. Che poi, in realtà, non significa che la produzione musicale abbia virato stile tout court, ma piuttosto che i canali principali di diffusione si sono aperti anche a quello che fino ad allora era percepito come disturbante, troppo diverso. E mentre i Beastie Boys pubblicavano “Ill Communication”, i Sonic Youth “Experimental Jet Set…”, Nick Cave “Let Love In”, gli House Of Pain “Same As It Ever Was”, i Kyuss “Welcome To Sky Valley”, i Green Day “Dookie”, gli Offspring “Smash”, i NOFX “Punk In Drublic”, i Nirvana “Unplugged In New York”, i Meat Puppets “Too High To Die”, gli Alice In Chains “Jar Of Flies”, i Pearl Jam “Vitalogy”, i Dinosaur Jr. “Without A Sound”, le L7 “Hungry For Stink” (e mi fermo perché altrimenti lo spazio non basta..) il caro Mike Watt si accingeva a pubblicare il suo primo disco da solista…da solista?! Ahahah! Che ridere!
Un passo indietro, prima di farne due avanti. In quel momento, in quell’anno la cui estate fu caratterizzata da temperature anomale e bollenti, Mike Watt era già un’icona punk, un ex bassista (degli appena disciolti fIREHOSE) nonché il fresco ex marito di Kira Roessler. Per la prima volta dagli anni dei Minutemen non era in tour. Aveva trentotto anni ed era semplicemente un bassista, un bassista senza band e con tanto tempo libero. Possiamo affermare senza ombra di smentita che si trovasse nella situazione perfetta per cercare una nuova strada, un nuovo inizio, un nuovo disco. E allora, come in missione per conto di Dio, Watt mise su la banda. In realtà più di una. Grande appassionato di wrestling, durante una visita nello studio di Raymond Pettibon (vd Black Flag) vide alcuni disegni (quelli nella copertina del disco) che raffiguravano dei lottatori. Pensò che sarebbe stato bello realizzare un disco di confronto e/o lotta con colleghi e amici, proprio come se si trovassero su un ring. Già, ma quali musicisti avrebbe potuto coinvolgere? Riuscite a immaginarlo mentre apre una vecchia agenda e, inumidendosi le dita una pagina dopo l’altra, comincia a recitare i nomi di gente che suonava con Nirvana, Pearl Jam, Black Flag, Bikini Kill, Beastie Boys, Red Hot Chili Peppers, Soul Asylum, Dinosaur Jr., Jane’s Addiction, Germs, Pixies, Screamers, Lemonheads, Meat Puppets, Saccharine Trust, Circle Jerks, Screaming Trees, that dog, Geraldine Fibbers, Bazooka, Liquid Jesus e Parliament-Funkadelic?
Ecco, ricominciamo da dove avevamo lasciato, dalla risata sorta spontaneamente quando abbiamo parlato di disco solista: “Ball-Hog or Tugboat?” è composto da diciassette brani, all’interno dei quali, sparsi qua e là, ci sono cinquanta collaboratori, cinquanta wrestler che lottano fino all’ultimo sangue con Mike Watt. Veramente dobbiamo considerarlo un disco solista? O piuttosto un disco nel quale si alternano diciassette band diverse, una per ogni singola canzone e il cui unico trait d’union è rappresentato dal basso e da chi lo suona? Direi che la risposta sia piuttosto semplice.
Tra i diciassette brani, alcuni spiccano, per composizione e per valore degli interpreti: Big Train (l’unico pezzo cantato da Watt insieme a Coincidence Is Either Hit Or Miss), Against The 70’s con un Eddie Vedder all’acme della sua carriera, Piss-Bottle Man con alla voce un Evan Dando very dandy e la rabbiosa Sexual Military Dynamics di e con Henry Rollins. L’ultima citazione la lasciamo per Maggot Brain il cui assolo acido, opera di un particolarmente ispirato J. Mascis, mandò in solluchero Mike Watt. E anche noi.
“Ball-Hog Or Tugboat?” è un album che forse all’epoca sembrò più stravagante di quanto appaia moderno oggi. Ispirato in parte dalla poesia Song of Myself di Walt Whitman, il padre della poesia americana, è una capsula del tempo che con il falso scopo del racconto autobiografico ci restituisce una profonda riflessione sull’importanza del bassista nella musica moderna, passando dal punk al jazz, al pop. È un disco che introduce l’ascoltatore in un mondo variegato e scintillante, un colorato spettacolo da circo che ci ricorda perché gli anni novanta sono stati fondamentali e che ci invita a riascoltare con uno sguardo nuovo coloro che all’epoca ci sembravano grandiosi e che oggi sono diventati giganti sulle cui spalle arrampicarsi per vedere il futuro davanti a noi.
P.S.: Nei vari servizi di musica in streaming potete trovare anche la versione suonata dal vivo del disco, “Ring Spiel Tour ’95 (Live)”. Ne vale la pena.