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Back In Time

“War”, il disco con cui gli U2 divennero grandi

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Molti anni prima di diventare l’inutile e patetica copia di se stessi, gli U2 furono una grande rock’n’roll band. Li vidi a Modena, nel 1987, in una calda sera di maggio, e fu uno show grandioso, una dolce tempesta, con la band magnifica nel nutrirsi delle buone vibrazioni che erano nell’aria per poi renderle al pubblico in forma di canzoni appassionate e potenti. Eravamo in tanti, al Braglia (35.000, probabilmente di più), e tutti tornammo a casa con un emozione da raccontare. Era il tour di “The Joshua Tree“, l’album americano e della definitiva consacrazione, quello col quale diedero definitivamente la schiena agli spigoli post-punk degli esordi per ripetere il viaggio country-blues degli Stones di “Exile On Main Street“.

Per arrivarci erano passati attraverso cinque dischi, e “War” era il terzo della serie, quello del superamento dell’idealismo adolescenziale in favore di suoni e parole capaci di assorbire gli umori del tempo. “War” portò  Give A Peace A Chance di John Lennon sotto un cielo rosso sangue, e fu il loro Discorso Della Montagna, con la voce accorata di Bono Vox che urlava come fosse l’ultimo e definitivo dei predicatori cristiani del rock’n’roll. Gli occhi inquieti di Peter Rowan, il ragazzino in copertina, erano lo specchio dell’anima del disco: l’ansia, i dubbi, i tormenti, gli assilli e le speranze di quegli anni erano la polvere della terra che plasmava gran parte delle canzoni di “War“. Gli U2 stavano diventando adulti, e con essi milioni di fans che li avevano eletti i messia del nuovo Vangelo rock.

Non tutto “War” aveva il fuoco addosso, perché nell’ingenuo power-pop di Two Hearts Beats Like One Bono Vox faceva le fusa alla moglie, e Red Light dava un posto al dolore di una giovane prostituta per una storia che si scaldava con i cori e i fiati dei Kid Creole And The Coconuts: qualsiasi riferimento a Taxi Driver non pareva casuale, e nemmeno la Roxanne dei Police sembrava tanto lontana. Drowning Man aveva un violino elettrico che faceva la differenza, ed era una promessa d’amicizia e una mano in soccorso del bassista della band, Adam Clayton, a quei tempi impegnato a non affogare tra depressione ed alcool.

Chiaramente, non erano queste le canzoni che avrebbero aperto a “War” la Porta Santa della gloria. La beatitudine stava infatti nel trittico iniziale, a cominciare dallo spasimo marziale di Sunday Bloody Sunday, il pezzo che piantava la bandiera bianca nel cuore della questione irlandese. Sunday Bloody Sunday era la loro Eve Of Destruction, la canzone definitiva contro le devastazioni fisiche e morali di ogni guerra. Parlava di un 30 gennaio del 1972, quando paracadutisti dell’esercito inglese spararono su un corteo pacifico di dimostranti in una cittadina del nord Irlanda. Fu una carneficina, e quella domenica di sangue divenne il pretesto per la canzone che diede un’anima agli U2. Il giro di basso bollente di Adam Clayton, il piano wave di un The Edge prestato ai tasti, e il rullante da combattimento di Larry Mullen salutavano il New Years’s Day col quale arrivava la revoca della legge marziale nella Polonia di Lech Walesa e Solidarnosc.

La paura del nucleare veniva purgata dal passo deliberatamente funky-pop di Seconds, con la prima strofa cantata da The Edge e il resto affidato alla voce enfatica di Bono. Era il pezzo più cantabile del long playing, mentre le protagoniste di The Refugee scappavano dalla guerra per inseguire il sogno della terra promessa. Il rombo di tuono della chitarra di The Edge era ovunque, come la speranza e la rabbia che Bono Vox infondeva nelle canzoni.

Gli U2 erano diventati grandi, e lo sarebbero stati di più con  “The Unforgettable Fire“, “The Joshua Tree” e “Achtung Baby“, fino al declino degli ultimi anni. Evitabile, forse, se avessero capito in tempo che il segreto dei Rolling Stones stava nel patto col diavolo.

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