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“Closing Time”, il primo sabato sera di Tom Waits

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C’erano una volta tre amici, e due di loro furono pure amanti: vivevano di notte, dopo l’orario di chiusura dei locali, quando iniziava quella lush life fatta vampiri e lupi mannari, pachucos, randagi, giocatori d’azzardo, misantropi, donne di malaffare, ruffiani e tutti gli Henry Chinaski del Santa Monica Boulevard. Dei tre il più strambo sembrava Chuck E.Weiss, un batterista blues che si cotonava i capelli e vestiva come un pappone e che sembrava uscito da “Taxi Driver”.

Un giorno lasciò la folle combriccola per ritornare a Denver dalla cugina, della quale pare si fosse innamorato. Rickie Lee Jones, la ragazza del gruppo, gli dedicò la sua canzone più famosa, Chuck E’s In Love, che stava sull’album col quale la bionda col basco e il cigarillo divenne la fidanzata di tutti i sognatori romantici della California, e non solo. In realtà aveva una relazione col terzo della compagnia, Tom Waits, all’epoca un esistenzialista da night che la notte sbucava dal fumo di mille Lucky Strike per raccontare le sue storie alla luna. I tre dividevano una stanza al Tropicana Motel, che all’epoca era la babilonia del rock’n’roll, un posto dove bastava non ammazzare nessuno e pagare più o meno regolarmente l’affitto per poter parcheggiare il culo e le chitarre. C’erano passati Janis Joplin e i Led Zeppelin, e la sera potevi incontrarci Debbie Harry e Joan Jett.

Le prime canzoni di Tom Waits nacquero in quel contesto fatto di ubriaconi e sonnambuli, beatnick e perdigiorno condannati all’ergastolo dell’invisibilità dal fallimento del Sogno Americano. A notarlo tra le bottiglie del Troubadour fu Herb Cohen, il manager di Frank Zappa, che lo strappò dal pianoforte dove suonava per portarlo negli studi della Asylum di David Geffen, l’etichetta che stava definendo il suono della West Coast, anche se fu subito chiaro che Tom Waits aveva più a che fare con la notte e il blues, col jazz e il realismo sporco di Bukowski che col sole della California, il folk-rock e gli struggimenti di Jackson Browne e Joni Mitchell. Con una voce ancora lontana dall’essere ossa e fango, il Tom Waits dell’esordio era tenero e romantico come non lo sarebbe più stato.

In “Closing TimeTom Waits svuotava il pacchetto della malinconia assieme a quello delle sigarette: erano confessioni da sbornia triste, da ennesimo ultimo giro mentre i camerieri stavano già passando lo straccio e il barista cominciava ormai a bestemmiare. Qualche pezzo sarebbe poi entrato nel tempio dei classici della canzone d’autore, a cominciare dall’epopea della strada e delle auto celebrata in Ol’55, una ballata piena di diesel e tristezza che gli Eagles avrebbero poi ripreso per portarla in classifica. I Hope That I Don’t Fall In Love With You rovistava tra le lacrime e i rimpianti, e Martha era un amaro ricordo che si faceva dolce melodia.La poesia disperata e realistica del giovane Waits s’accompagnava con una band che ti faceva toccare la tristezza: languido e ruffiano il blues si prendeva Midnight Lullaby e Virginia Avenue, mentre Ice Cream Man scuoteva la scaletta col suo jazz sfrontato.

Erano canzoni da cantautore folk suonate da un’orchestrina jazz, erano autobiografie tascabili scritte col bourbon e con mille vite dentro, e Tom Waits era già il saltimbanco dell’anima del sabato notte.

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