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“Mr. Beast”, il cuore oscuro dei Mogwai

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Do per scontato, senza bisogno di andarli a recuperare, che ciascun pezzo di questa webzine inerente i Mogwai miri ad evidenziare il peso specifico di una band che è stata sempre un passo avanti agli altri. 

Non servo quindi io a riconfermarlo, ancor più in questi mesi dove con l’ultimo “As The Love Continues” hanno raggiunto i vertici delle classifiche britanniche, con plausi meritati da parte di Primal Scream, Slowdive, Explosions In The Sky, The Cure. Mica ti ho detto gentucola. In realtà la questione è più profonda ed è quasi volgare ridurla a gerarchie commerciali. Poco importa se Barry Burns si è scagliato contro la definizione: la concettualizzazione del post-rock – genere tutt’altro che morente -per come la intendiamo oggi è quella che è stata codificata dai Mogwai, attestandosi – con a latere pochi altri nomi – come l’heritage culturale di principale riferimento per ogni band venuta dopo. 

Io all’epoca avevo solo 11 anni non ancora compiuti e – bullismo a parte – meno pensieri di oggi, ma non esiterei ad asserire che nel 2006 l’uscita di “Mr. Beast” fu un cataclisma. Se “Happy Songs For Happy People” era un perfezionamento della struttura di “Rock Action“, puntando sulla ricerca sonora attraverso distorsori, vocoder e pianoforte, in “Mr. Beast” vengono mutuati gli stessi elementi del predecessore ma si spinge tutto a conseguenza ancora più estreme. Ad oggi resta uno dei dischi più cupi degli scozzesi e uno di quelli in cui si elevano, da contingenza a elemento perfettamente integrato, quelle influenze post-hardcore sempre tenute a bada ma mai davvero sopite.

La varietà dei brani è sicuramente un elemento distintivo ma in realtà già da “Come On Die Young” in avanti i Mogwai hanno ambito a sacrificare la compattezza e l’omogeneità a favore della sperimentazione e del conferimento a ciascun brano di un’identità ben riconoscibile. Da questa angolatura “Mr.Beast” si candida legittimamente ad essere uno dei dischi più compiuti di una discografia in cui in realtà, soprattutto durante quel periodo, l’apice può solo essere ricondotto a gusti soggettivi. 

Il disco si apre con Auto Rock che va a occupare prepotentemente le zone di confine che delimitano un intro da un open track. Brano suonato principalmente sui diesis: ritorna il piano elettrico del disco precedente, ovattato e pulitissimo in contrasto con i sintetizzatori che entreranno successivamente, così come elettrica è l’atmosfera del brano man mano che si sale nel crescendo e man mano che si rafforzano i picchi dei mallet su timpani e i tom. La prima grande discontinuità nell’universo Mogwai è però segnata da Glasgow Mega-Snake ossia il primo esempio precursore di pezzo tirato, vicino a una concezione moderna di post-hardcore, che i Mogwai inizieranno da questo momento a seminare di tanto in tanto nei loro album (si pensi a Batcat o a Old Poisons). 

Acid Food rappresenta invece un ritorno allo stadio iniziale della band – una sorta di figlia illegittima tra “Come On Die Young” e “Rock Action” – in un pezzo dove la ritmica dettata dal campionatore sembra quasi scoordinata dall’incedere di chitarra, pulitissimo e ipercompresso. Uno dei rari esempi di sperimentazione anche sul piano vocale in virtù dell’incrocio tra le armonie corali delle strofe e l’uso del vocoder nel ritornello. I primi 10 minuti di “Mr Beast” chiariscono quanto prima asserito sulla varietà del disco:  tre brani, che sembrano prodotti da tre band completamente diverse ma inserite in un’atmosfera generale degna di una band arrivata al quinto disco. 

Uno degli apici emotivi arriva con Travel Is Dangerous, dal mio punto di vista una sorta di Killing Al Flies più evoluta e ricercata. Braithwhite tesse una tela chitarristica in cui la delicatezza degli arpeggi iniziali, pervasi da un’atmosfera oscura che fa presagir il peggio, sfocia furiosamente nel ritornello in cui la saturazione del gain apre scenari a metà strada tra il noise e l’epica, mantenuti in equilibrio dalla voce eterea di Barry Burns quasi come se fosse uno strumento indistinguibile dal resto. Team Handed indossa con eleganza una veste più classica ed è portatrice di una sensibilità diversa, a piccoli tratti quasi jazz, non tanto nelle atmosfere quanto in alcune scelte compositive come ad esempio il modo di portare la batteria o alcuni passaggi di pianoforte. 

Menzione a parte per Friend Of The Night come momento centrale non solo di questo disco ma dell’intera discografia dei Mogwai. Un brano di art-rock puro, a metà strada tra il romantico e il drammatico, che testimonia a pieno titolo la maturità raggiunta e la capacità di evolvere una formula musicale già da tempo standardizzata verso nuovi lidi musicali. L’intreccio tra le chitarre e il pianoforte crea una climax ascendente semplicemente maestosa, appena sfibrata da lievi distorsioni durante i ritornelli e pienamente tenuta in piedi dalla sezione ritmica. 

Emergency Trap è un tributo a un certo tipo di alternative britannico che ha gli Hood come capostipiti, tant’è che il brano in questione non farebbe brutta figura in un disco come Cold House. A impreziosirlo ulteriormente, per chi ha un certo tipo di orecchie, si possono ravvisare piccole influenze di emocore anni 90 (Mineral in primis) che spesso hanno rappresentato una (inconsapevole?) matrice sonora per gruppi come Mogwai o Explosions In The Sky. 

Il momento in cui emerge maggiormente sia l’alchimia che il talento dei Mogwai è Folk Death 95 la cui struttura andrebbe insegnata nelle scuole di musica. Un magma sonoro in cui ciascun elemento è perfettamente sintonizzato sulle frequenze degli altri e in cui armonia, ritmica e melodia diventano convenzioni musicali quasi indistinguibili. In questo gioco di penombre le chitarre elettriche nella seconda parte del brano dilaniano il pezzo in piena tradizione Mogwai quando si ricordano delle loro radici noise.

I Choose Horses mostra l’anima più ambient e dilatata dell’album con la partecipazione (di Craig Armstrong alle tastiere…ma sopratutto) di Tetsuya Fukagawa degli Envy alla voce con il suo classico stile tra recitazione e spoken word. A giudizio di chi scrive si tratta dell’unico momento sottotono del disco, ma questo featuring è una testimonianza nominale del gemellaggio tra post-rock e post-hardcore che inizia in quel periodo e che solo dagli anni 10 mostrerà segnali di evidenza maggiori (ricordiamoci che sempre nel 2006 esce Insomnniac Doze).

La chiusura è affidata a We’re No Here, altro momento fondamentale della discografia dei Mogwai. Un’autentica epopea caratterizzata dall’assalto sonoro di basso e chitarre distorte mai così liquidi e raramente così pesanti nella loro discografia. L’impatto viene ulteriormente rafforzato dal drumming catatonico di Martin Bulloch privilegiando un approccio più elementare rispetto alle architetture ritmiche a cui ci ha abituato. Il fraseggino di chitarra martella le tempie dell’ascoltatore per condurlo verso la fine di questo viaggio. 

“Mr. Beast” suona come dovrebbe suonare uno dei migliori dischi post-rock degli anni 2000: un disco oscuro ma adulto, che cerca l’equilibrio tra l’impatto emotivo e la contemplazione musicale più riflessiva. Semplicemente una pietra miliare. 

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