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Emptiness – Vide

2021 - Season Of Mist
dark lounge / slowcore

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Tracklist

1. Un corps à l'abandon
2. Vide, incomplet
3. Le mal est chez lui
4. Le sévère
5. Ce beau visage qui brûle
6. Détruis?moi à l'amour
7. Plus jamais
8. L'erreur
9. On n'en finit pas
10. L'ailleurs


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Lunga è stata la strada che ha portato gli Emptiness fino a “Vide”, un percorso iniziato nella violenza espettorata senza tante remore, passato attraverso le faglie più oscure e opprimenti di un mondo “gotico” fino a giungere qui, in un mondo che sembra chiudersi attorno a noi, senza che si possa far nulla per uscirne indenni.

Mentre scrivevo del precedente “Not For Music” mi interrogavo se si potesse essere black metal senza suonare black metal, invece oggi mi rendo conto – ancor più di allora – che la domanda non è più utile, soprattutto nei confronti del gruppo belga. Gli Emptiness, infatti, hanno preso direzioni distanti da se e da tutto il resto, prediligendo qualcosa che si alza dalla soglia del silenzio quel tanto che basta per risultare una carezzevole apocalisse. Al gruppo non serviva di certo che l’apocalisse si manifestasse concretamente per poterla descrivere e modellare, ma di certo ha “aiutato” l’idea di isolazionismo, reso reale da registrazioni completate ora in mezzo ad un bosco, ora sul tetto di un palazzo con vista sul deserto metropolitano che questa maledetta pandemia ha creato.

Vide” ne risente, diremmo, ma nella realtà dei fatti ne giova, e ciò che ne nasce è lo scheletro che si celava già dietro le granitiche e pulsioni industriali, dietro la cassa toracica del mostro batte un cuore atonale, che però in melodie asciutte trova situazione ideale per battere al ritmo del termine ultimo del mondo. Ridotto tutto all’osso, affiora in superficie un amore incrollabile per sonorità scarne e ammantate di un grigiore che pare ultraterreno ma che, a conti fatti, è nulla più che umano. Sembra di sentire Karate e Codeine, nella fattispecie quando le chitarre di Olivier Lomer e il basso di Jérémie Bézier si prodigano nell’intrecciarsi, accordandosi fuori tonalità, sbattendo contro synth discendenti, che non sempre servono ad aprire lo spazio, semmai tolgono aria melodica quando gli altri la creano. Una decostruzione in picchiata, impreziosita da un lavoro elettronico che pare sampling ma sampling non è, con vampate darkwave e droni che come sono arrivati se ne vanno.

Il disco si muove in crescendo, senza necessariamente innalzarsi, parte amaro concentrato e amaro rimane anche aprendosi, togliendo forze ma librandosi verso un’intensità che tanto fu cara a Mark Sandman, muovendosi ritmicamente più in alto, rimanendo in un volo al filo d’acqua. La voce di Bézier poi, nel suo essere quasi perennemente distorta crea un’ulteriore dissonanza, quasi fosse meramente descrittiva, latrice di sventura e dolore, tocco disumanizzante in un contesto fatto di occhi che lacrimano, rumori che s’insinuano sotto le composizioni slowcore rallentate all’estremo, languida articolazione di un viaggio a senso unico verso il vuoto al centro dell’essere umano che sanguina lacrime.

Inatteso cambiamento e arte purificatrice, “Vide” è un punto immobile che si muove solo guardandolo da distante. Discerne e fonde al contempo uomo e natura morta contemporanea. Sembra un’alba fragile che illumina l’abbandono.

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