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Retrospettive

The Band: mitologia di un collettivo che ha cambiato la storia della musica

Con la DeLuxe Edition di “Stage Fright”, uscita il 12 febbraio, il ciclo delle riedizioni del 50mo anniversario dei dischi in studio di The Band giunge al terzo capitolo. Quando uscì questo disco, le cattive abitudini stavano prendendo il sopravvento su almeno 3 dei 5 membri della band e, tra gli autori, l’unico che rimaneva sufficientemente lucido per continuare a scrivere qualcosa era Robbie Robertson. Gli abusi e lo stress da tournée continua nel tempo avrebbero prodotto paranoie e rivalità finche’ nel giorno del ringraziamento dell’anno 1976, ecco “The Last Waltz”, l’ultimo atto, l’ultimo mitico concerto. Con “The Last Waltz”, Robertson, che nel frattempo aveva rilevato dai colleghi i diritti sulla musica, fonda la mitologia del gruppo. Oltre ad essere un grande musicista, Robertson, da quel momento, dimostra di essere un genio del marketing musicale non smettendo mai di alimentare l’epica del gruppo con operazioni come il film “Once Were Brothers” del 2019.

Il documentario sull’epopea di The Band si ferma al 1976 e nemmeno menziona le reunion degli anni ‘80 e ‘90, da cui Robertson si tenne furbamente alla larga e che, va detto, poco aggiungono artisticamente. Dopo “L’ultimo valzer”, Robertson è diventato il braccio musicale di Martin Scorsese (sue anche le musiche del recente “The Irishman”) e ha pubblicato 6 album solisti di alto livello. Insieme al chitarrista rimane oggi solo il mite Garth Hudson, ritiratosi ora a vita privata. Richard Manuel si è suicidato a 43 anni nel 1986, dopo un concerto; Rick Danko se n’è andato per un infarto a soli 55 anni nel 1999; Levon Helm lo abbiamo perso per un cancro nel 2012.

The Band era composta da 4 ragazzi canadesi e uno dell’Arkansas che si ritrovarono casualmente, dopo anni di gavetta vera e per intercessione di John Hammond jr. (lo stesso che di fatto scopri’ Jimi Hendrix e figlio di quel John Hammond che portò il blues classico ai bianchi americani), a spalleggiare Bob Dylan nel suo primo famigerato tour elettrico che costituii una svolta enorme , all’epoca contestatissima dai fan. Quando Dylan si dovette fermare per un brutto incidente di moto, i 5 presero una casa color rosa salmone vicino la sua, a Woodstock, nello stato di New York e cominciarono a fare la loro musica. Dylan, in convalescenza, li visitava spesso. Contribuì con un paio di canzoni e disegnò la copertina del disco, nella quale compariva con i 5.

E l’album, “Music from the Big Pink”, fece il botto. Rolling Stone lo piazza al #34 (solamente?) nella lista degli album più importanti di sempre. Il suo successo all’epoca si estese all’Inghilterra, in questo continuo rimpallo musicale che va avanti da decenni tra i due Paesi e Eric Clapton se ne accorse. Comprese che quella era la musica che voleva fare; sciolse i Cream, che non sopportava più da tempo a livello musicale e personale e se ne andò in pellegrinaggio a Woodstock in un tentativo maldestro di farsi arruolare nella band. Un episodio che raccontò egli stesso, quando nel 1994 consegnò loro la statuetta della Rock’n Roll Hall of Fame. Fallito il tentativo (non trovò nemmeno il coraggio di dire quel che voleva), rimase comunque in America, circondandosi di musicisti americani e produsse la più bella opera originale della sua grande carriera: “Layla and Other Assorted Love Songs”.

I Beatles anche se ne accorsero. George Harrison, al pari dell’amico Clapton, capì che quella era la musica che voleva fare e che i Beatles gli stavano stretti. La farà con “All Things Must Pass”, un capolavoro su cui l’influenza di The Band si sente dappertutto. Persino, Paul Mc Cartney infila il ritornello di The Weight sul finale di Hey Jude. E anche i Pink Floyd presero nota: “dopo Sgt. Pepper’s, Big Pink è il secondo disco di maggiore influenza nella storia del rock’n roll e tocco’ i Pink Floyd davvero molto profondamente”, racconta Roger Waters.

All’epoca, Rolling Stone, azzeccandoci da subito per una volta, scrisse: “Un album che prende dal pozzo della tradizione ma da cui emerge un secchiello di chiaro e fresco country soul. Il genere di album che finirà per aprire la sua propria porta a un nuovo genere. O anche: “‘Music from Big Pink‘ è un evento e come tale deve essere considerato. I giri di accordi sono rinfrescanti, le storie sono raccontate in modo sottile, eppure piene di tensione e le voci procedono sciolte come in una cavallerizza, ma perfette”.

Se oggi ascoltate King Hannah o Ida Mae (due gruppi inglesi, tra l’altro), o Marcus King, è grazie a loro. Se siete appassionati di musica “Americana”, allora forse lo sapete che fu nella “grande casa rosa” che ebbe inizio quel mix di blues, soul, country, rock’n roll, folk e quant’altro. E questo articolo non vi sta dicendo nulla di nuovo e avete già smesso di leggerlo. Ma in Italia, 50 anni fa, non se n’erano accorti in tanti. Non c’era Impatto Sonoro ahimè e il Rolling Stone nostrano era Ciao 2001 che aveva un corrispondente a Londra ma non a New York. Per cui si sapeva tutto degli Emerson, Lake e Palmer e dei Genesis, ma furono in pochi, da noi, ad accorgersi della “musica dalla grande casa rosa”. Qualche bene informato sussurrava della band di Bob Dylan che si era messa in proprio, ma la portata della cosa non era chiara. Solo una decina di anni dopo, da noi ci si accorse di Bruce Springsteen. Che non credo sarebbe esistito senza The Band.

“Non esiste altro complesso che sappia incarnare meglio la capacità di essere più grandi della somma delle parti.” – dice di loro il Boss in “Once Were Brothers”. Quando nel 1987 Robertson finalmente pubblicò il suo primo disco solista, in Italia passavano un video su VideoMusic (la MTV italiana): Somewhere Down the Crazy River, una melodia stupenda che mi stregò. E l’io adolescente scoprì questo musicista con un dono unico per la canzone e, nel tempo, cominciai un viaggio a ritroso fino a ripartire da Big Pink.

Stage Fright” è l’ultimo grande disco di The Band e ora siamo finalmente in grado di apprezzarlo. L’edizione del cinquantenario si presenta con una nuova successione di brani, che poi era quella che Robertson avrebbe voluto all’epoca e con un nuovo mix curato dal grande ingegnere Bob Clearmountain. Rispetto all’originale i 5 suonano ora come un collettivo coeso, come nei primi due dischi, che ora non appaiono più così tanto superiori a questo. Robertson da la colpa al fatto che avevano cambiato produttore e al fatto che nel 1970 erano troppo impegnati in tour per dare i giusti ritocchi finali all’album, con la cura e il tempo che avevano invece dedicato ai primi due.

Stiamo parlando di 3 dischi che oltre ad avere avuto l’impatto descritto sopra, negli Stati Uniti si guadagnarono 1 platino e 2 ori. Stiamo parlando di un gruppo talmente fico nel 1969 che, nel gran casino che era il festival di Woodstock, era stato chiamato per chiuderlo quel festival, alla pari di un certo Jimi Hendrix. La disputa venne risolta nel backstage amichevolmente tra Robertson e Hendrix che erano amici dai tempi in cui, prima di essere famosi, frequentavano insieme i locali dell’East Village. The Band, residenti a Woodstock, non vedevano l’ora di tirarsi fuori da quel carnaio di cui la comunità locale non li avrebbe mai perdonati e cedettero volentieri i riflettori (dell’alba) a Jimi, per tornarsene a casa il prima possibile. In quell’occasione, Jimi ebbe grandi parole di stima per “Music from the Big Pink” e si scusò con Robbie per avergli copiato un guitar lick: “è tuo Jimi, in nome dei vecchi tempi”, gli rispose l’altro e fu il loro ultimo incontro.

Robertson figura al #59 (solamente?) nella classifica di Rolling Stone dei più grandi chitarristi. Il suo stile era ben lontano da quello di Jimi che pur ne aveva la considerazione di cui sopra. Lo potete ascoltare in Blonde on Blonde di Dylan su “Obviously Five Believers”: la chitarra non va sotto i riflettori ma lavora per risaltare la melodia e la musicalità complessiva, intersecandosi con la voce e l’armonica del Premio Nobel. Un pittore della sei corde che ha influenzato tutti. “Volevo fare le cose con gusto e discrezione, sottilmente…..la canzone è il centro di tutto” – racconta l’interessato.

Tornando alla recente DeLuxe Edition, vi troviamo anche il live registrato nel giugno 1971 alla Royal Albert Hall di Londra, finora inedito. Se a quel punto la vena creativa stava per esaurirsi, quella musicale rimaneva invece a palla. Probabilmente la migliore testimonianza live di questa band, con una qualità del suono perfetta. Non perdetevi Don’t Do It, una cover di Marvin Gaye che era un classico dei concerti della band. Qui Levon Helm, tra il groove della batteria e la forza espressiva del cantato, supera se stesso.

Due parole su Levon Helm, numero 22 (solamente?) nella classifica di Rolling Stone dei migliori batteristi di sempre e al tempo stesso un cantante pazzesco. Quando suonava e cantava dallo sgabello, non era possibile restare fermi: una scarica d’adrenalina lungo la spina dorsale e pelle d’oca assicurata. Meno male che c’è YouTube e potete andarlo a vedere ora. Guardatelo cantare e suonare The Night They Drove Old Dixie Down o Up on Cripple Creek, i capolavori dal secondo disco eponimo del 1969. Oppure The Weight: forse la loro canzone più famosa, apparsa negli spot della Coca Cola e in innumerevoli film; da “Easy Rider”, passando per “Il Grande Freddo”, “Ragazze Interrotte” e più recentemente nell’ottavo capitolo della saga del Pianeta delle Scimmie. Al #41 (solamente?) della lista di Rolling Stone delle più grandi canzoni di tutti i tempi, The Weight ha avuto più cover di quante se ne possano elencare.

Quando il primo disco era pronto per uscire, il collettivo non aveva ancora un nome. Le prime stampe riportavano solo i nomi dei 5 ragazzi. Poi a Robertson venne una idea: “I nostri amici e i vicini a Woodstock dicono di noi: sono i ragazzi from the band”. “Il semplice nome: The Band. Dice tutto” – li canonizza Bruce Springsteen 50 anni dopo. Santi subito, diciamo noi. In certi casi la Rock’n Roll Hall of Fame non è abbastanza.

Photo: Elliot Landy

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