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Back In Time

“Black Love” degli Afghan Whigs “non poteva essere più nero di così”

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Quando uscì il 12 marzo 1996, “Black Love“, doveva essere il disco della consacrazione commerciale e artistica degli Afghan Whigs, dopo la buona accoglienza di Gentlemen. Invece fu un mezzo flop (79mo posto in classifica), per il quale l’etichetta Elektra non ebbe pietà e fu anche il disco dopo il quale Greg Dulli terminò in ospedale per una depressione. “Black Love“, disse a posteriori il front-man, “è il mio figlio incompreso”. Fu l’inizio della fine per le parrucche afgane che avevano mancato l’onda commerciale del grunge, pur avendo preso casa a Seattle (venivano dall’Ohio) e fecero un solo altro disco prima di sciogliersi.

Eppure, come fa con tutte le cose di valore, il tempo è stato galantuomo (“gentleman”….), e l’interesse è andato crescendo nel nuovo millennio: 15 anni dopo, la band si è riformata; 20 anni dopo, il disco ha ricevuto una deluxe edition e 25 anni dopo ci ritroviamo a celebrare Black Love” come una delle principali epopee della storia dell’alt-rock. A scrivere epopee destinate a durare, Dulli racconta di avere appreso dai maestri, The Band e Robbie Robertson: quella capacità di raccontare le storie in prima persona, con tutta la sofferenza che ne viene, in uno spazio morale realistico, dove tutto è grigio e non ci sono buoni e cattivi.  

Nel 1998, curata la depressione, Dulli chiamò Black Love” “il lavoro di un autore che stava chiaramente perdendo il senso della realtà”. L’album era la rappresentazione della depressione che lo incalzava: “Quanto più nero poteva essere? La risposta è zero: non poteva essere più nero di così. Ecco spiegato il titolo.”

“Pensi che io sia bello? / O pensi che sia malvagio? / Te lo farai un giro con me? / Di quelli che non finiscono mai?”. Black Love” comincia con queste parole, minacciose ed invitanti al tempo stesso. Comincia con profondi accordi dell’organo del tastierista Harold Chichester e rumori striduli che paiono provenire da una stazione ferroviaria o da una fabbrica, per passare poi a un fitto giro chitarristico, marchio di fabbrica della band. La voce di Dulli entra, prima mite, poi urlando quanto sopra con quella sua voce bruciacchiata. Crime Scene Part One posiziona l’ascoltatore sulla “scena del crimine”, certo non un luogo rassicurante. È cominciato il film, ma siamo solo ai titoli di testa che ci danno contesto e ambientazione, finiti i quali riceviamo un calcio nel didietro che ci fa sobbalzare dalla poltrona. Dulli e McCollum esagerano sparando le chitarre in un riff all’unisono che entra nello stomaco; fa il suo ingresso furioso il nuovo bravissimo batterista, Paul Buchignani (che purtroppo resterà solo lo spazio di questo disco) e capiamo che qui e’ già un’altra storia: My Enemy.

A questo punto il disco va suonato a palla e dobbiamo alzarci di fronte ad un immaginario microfono e pensare che Dulli siamo noi mentre continua a sferzare la chitarra e canta: “Vuoi il cane? / Lo faccio uscire / Vieni a prenderne un po’”. La scarica di adrenalina di questi 3:10 ci schianta. Ma non c’è tempo per riprenderci, comincia Double Day. Come la traccia precedente, formazione base: 2 chitarre, basso e batteria, “non c’è niente di meglio al mondo” diceva Lou Reed. Buchignani raddoppia i colpi di cassa facendo volare le chitarre che disegnano un riff suadente, con il basso di Curley e il tutto sembra addolcirsi, all’interno di una depravazione conclamata: “Era un sabato / Tornai a casa ubriaco di amore / E di altre cose / Che, lo confesso, amo tutte”. Se non fosse che si torna ad urlare nel ritornello: ossia, noi stiamo ancora urlando insieme a Dulli, di fronte a quell’asta del microfono che immaginiamo, brandendo una chitarra che non abbiamo. Il volume a cui abbiamo portato lo stereo spiega la nostra scelta di abitare fuori città ed è ormai chiaro, a questo punto che, se regge la pompa, arriveremo in queste condizioni fino in fondo al disco.

Blame etc. conclude un terzetto di tracce adrenaliniche. Qui torna l’organo e il clavinet alla Stevie Wonder: siamo in territorio soul, uno di quelli che meglio si addicono alle parrucche afgane e difatti i testi sono ispirati alla storia di David Ruffin, cantante dei Temptations, l’altro punto di riferimento fondamentale degli Afghan Whigs. “La mia lussuria mi lega / In catene / La mia pelle prende fuoco / Al solo menzionare il tuo nome”. Il protagonista di Black Love” e’ lo stesso maniaco del sesso di Gentlemen. Quello che ha “il cazzo al posto del cervello”. Ma qui si racconta una storia noir, che mischia crimine e lussuria; una storia che doveva comparire in un film che Dulli non ha mai terminato. E che si svolge tra le note del disco. Step Into the Light è una ballad che ci consente di tirare il fiato. Siamo sempre di fronte a quel microfono, ma ora abbiamo a tracolla una chitarra acustica e veniamo accompagnati dal piano elettrico e McCollum si è seduto alla pedal steel. Magistrale con il basso di Curley a dare pathos al pezzo: “Quando la droga del tuo sorriso svanisce / E mi lascia solo / Ne ho tanto bisogno, ne ho bisogno ora / Verrai a darmene un po’? /  Ho bisogno di dolcezza, piccola, ti prego”. Il nostro maniaco e (forse) criminale anela adesso disperatamente all’amore perduto. 3:40 che finiscono presto. Una drum machine rapida (copiata da Housequake di Prince) ci lancia subito in Going to Town: le chitarre s’intersecano manco fossero i Rolling Stones, Curley e Buchignani fanno il loro ingresso trionfale e il nostro pubblico immaginario si è già tutto alzato in piedi a sculettare. “Vai in città, dagli fuoco / E poi vai a fare la tua passeggiata, tesoro”: roba da psicopatici.

Photo: David Tonge

Con Honky’s Ladder si torna all’adrenalina che solo può dare la formazione preferita da Lou Reed. Nel video, si vede Greg cantare dal pulpito di una specie di messa voodoo, animata da una BBW che si dimena sul pavimento in trance e altri personaggi assortiti, tra cui: uno che pare un pappone di colore, uno che pare un broker di Wall Street che urla al telefono, una che pare una prostituta tossicodipendente che si lancia su un maschio, qualcuno vestito da angelo che sembra morire alla fine. Per un risultato colorato, ma confuso che certo non aveva il richiamo glamour delle strafighe che apparivano nel video di Gentlemen e sappiamo quanto contavano i video con strafighe in quegli anni. La decisione di Dulli di fare di questa traccia il singolo trainante spiega forse l’insuccesso dell’album. Bisogna scavare in fondo al muro di chitarre hard (bellissimi i lick di McCollum), per trovare il groove funky che la band predilige. Lo stesso frontman non ha più il fascino da bad boy che aveva solo un paio di anni prima e appare imbolsito mentre canta: “Ti ho beccato là dove ti voglio testa di cazzo / Non azzardare a muoverti / E se proprio vuoi spiare qualcosa / Spia quello che ti ho piazzato tra gli occhi”. Ok, il nostro protagonista è un criminale. Con Night by Candlelight ci prendiamo un’altra pausa. La ballad è sostenuta dal violoncello, dal piano elettrico e dal dulcimer. È un momento d’introspezione nel corso del film con il protagonista che si guarda dentro: “Sono vanitoso? / Sono capace di vergogna? / I miei pensieri sono quelli di un uomo / Che può dirsi sano?”. Candele in una stanza buia e lucine del cellulare accese dal nostro pubblico in sala.

Ed eccoci di nuovo in piedi con tutto il pubblico per il micidiale trittico finale. Bulletproof parte con oltre un minuto di tiratissimo funky guidato dall’organo per poi sfociare in un altrettanto tirato riff di chitarre che Buchignani spezza in 2/4: “Ho aspettato tanto / L’attesa e’ finita / Allora lasciati andare / Questa volta andiamo un po’ più giù”. Summer’s kiss è uno dei pezzi preferiti dai fan dei Whigs e da il nome al sito web del fan club ufficiale. Anche qui una intro di un minutino abbondante, fino all’urlo di Dulli che libera le chitarre fino ad allora trattenute: “Demoni, andate via / Lontano da me”. Compare un improvviso ottimismo nel disco, mentre Buchignani sembra Ginger Baker, rullando dentro e fuori le misure, Curley ci tiene inchiodati con il suo basso per evitarci di volare via con le chitarre e urliamo nel microfono come se non ci fosse un domani. Il tutto cessa all’improvviso dopo 3:56. Tornano i suoni striduli di inizio disco, entra Chichester prima con l’organo, poi con una melodia al pianoforte, accompagnata dai cori. Sempre un minutino di intro, che esplode quando la chitarra prende il controllo della situazione. Poi di nuovo calma: piano, basso e batteria e Dulli canta. Siamo all’apoteosi di Faded: “Sbiadito / Cosi mi sento / Dietro le nuvole azzurre / Rimango nascosto / Signore, sollevami oltre la notte / Dai, guarda giù / E vedi che disastro che sono questa sera”. Il climax sale e scende più volte, sostenuto dal violoncello, dall’organo e dal wah-wah di McCollum che fa il controcanto alla voce e alla fine prende il sopravvento incrociandosi con l’altra chitarra. Come una preghiera gospel. “In sintesi: Layla incontra Purple Rain”, nelle parole di Dulli.

Di nuovo i treni (o quel che è) a fischiare, mentre le note del pianoforte svaniscono. Sono passati 51 minuti e anche noi ci sentiamo sbiaditi, succhiati via da questo disco, il cui ascolto è un atto di coraggio per l’abisso emozionale che rappresenta.

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