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Back In Time

“Discovery”, l’immortalità dei Daft Punk

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“OOOOOOOONE MOOOOOORE TIME”, digital brass, vocal di Romanthony, lezioni di autotune per le future generazioni: ecco come si apre “Discovery”, secondo album del duo elettronico per eccellenza, i Daft Punk.

Stupidi vandali secondo una maldestra traduzione letterale, oltre il mito per la cultura pop mondiale; i due artisti francesi hanno scritto pagine di storia della musica, consacrando definitivamente un genere. Luminari dell’arte del vocoder (fratello maggiore dell’autotune), per quasi un ventennio hanno dettato legge nel mondo della musica dance/elettronica.

Riguardo al disco in questione, mettiamo pure da parte il singolone di apertura, One More Time, che non ha sicuramente bisogno di rievocazione memonica. Citiamo dunque altri dei 14 brani presenti in questo capolavoro, partendo per esempio da Aerodinamic e Digital Love. Il primo è un crescendo favoloso di finte chitarre synth, che trasportano gli ascoltatori in un brioso viaggio tra rintocchi di campana e filtri sapientemente utilizzati. Il secondo è pura melodia in chiave electro, è buon umore, è ballo puro: “Why don’t you play the game? Ta da da da da daaa”.

Harder Better Faster Stronger, altro brano celeberrimo, altra masterclass di auototune: minuto 2.02 e non serve aggiungere altro. Di nuovo un crescendo, appunto con Crescendolls, e tutti a ballare nelle spiagge della Costa Azzurra od ovunque voi vogliate. Il break lo offre Nightvision, traccia da intermezzo, meno famosa, ma dal sound fine ed elegante. Segue un’altra bomba, perfetta per quel momento della serata in cui non bisogna mollare: le gambe si muovono da sole al ritmo di Superheroes. High Life sorride alla bella vita e alla movida da rooftop, mentre Something About Us è a mio parere un pezzone, che anticipa in parte quelle che saranno le sonorità dei successivi album dei Daft Punk. Un testo più corposo, che sappiamo non essere un elemento tipico del progetto francese, viene accompagnato da un groove funky fino a sfumarsi delicatamente.

Poi ci sono Voyager, un loop instrumental di circa quattro minuti, seguito da Veridis Quo, brano elettronico malinconico, e prima di concludere la danza, l’impertinente Short Circuit e la spensierata Face To Face. Quell’ultima decina di minuti viene riempita con un viaggio “daftpunkiano”: sto parlando di Too Long, che suona attuale come tutte le produzioni firmate Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter.

Ma non basta un elenco per rendere onore al duo di caschi più famoso della storia. Concedetemi un omaggio a quello che personalmente è uno dei progetti musicali più interessanti e all’avanguardia dell’ultimo secolo; che ha saputo cavalcare l’onda del mainstream senza mai snaturarsi di fronte alle esigenze del mercato discografico; che ha fatto della sperimentazione sonora stessa un continuo successo. Perciò al diavolo i tecnicismi!

Se state leggendo questo articolo, indossate le vostre cuffiette o accendete i vostri speaker e riproducete qualsiasi loro canzone, faccia parte di “Discovery” o meno, tanto sono tutti dei capolavori e non credo di essermi sbilanciato troppo.

Gloria eterna ai Daft Punk, divinità apollinee dal casco d’oro e d’argento.

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