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Back In Time

Una dose di “Meds” da prendere all’occorrenza lontano dai pasti

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Quando hai lasciato il segno con album come “Placebo” e “Black Market Music”, sciogliendo doviziosamente la cera su cui imprimere il tuo nome, il rischio è che per la prossima produzione la cera si solidifichi un attimo prima che tu possa lasciare il segno.

Anno 2006, Brian Molko ha appena 34 anni ed io in quell’anno mi preparavo alla maturità, sicuramente più scolastica che mentale. I miei “modi” di ascoltare musica nel 2006 erano più o meno sempre gli stessi, radio, musicassette, qualche cd perché finalmente anche io avevo uno stereo con il lettore ed infine un programma, che beccavo a qualsiasi ora del giorno e della notte su qualche rete dimenticata da dio, MUSIC BOX di cui ricordo perfettamente il logo.

In un pomeriggio svogliato, a ridosso dei miei 19 anni, accendo la Tv e subito dopo Torn di Natalie Imbruglia, (per i miei coetanei non dovrei neanche specificare di chi è Torn) compare nello schermo questo ragazzino alla guida di un’auto che controlla il padre dallo specchietto retrovisore. Era un cortometraggio, più che un video clip, del brano Song To Say Goodbye.

Spazi aperti si alternano agli interni dell’auto da cui a malapena il ragazzino scorge la strada, un padre che alienato e distante rappresenta la depressione, il blocco mentale di cui si occupa il figlio quando gli prepara il pranzo, lo consola sul divano di casa, in quelli che sono gli atteggiamenti di un uomo maturo nei confronti di qualcuno più debole da dover difende. Dolce e struggente è la figura del ragazzino che rincorre il padre, accompagnato dal brano che è un inno all’addio, all’abbandono, qualcosa che sta per finire, la cui drammaticità si scorge nelle pause musicali (presenti nel video), allo scandire di un solo verbo “a song to say goodbye”.

Non c’era niente di sbagliato e fuori luogo in quel video, in quella musica e in quelle parole, Brian ancora una volta aveva attirato la mia attenzione, sapevo che dovevo fare spazio tra le mie cose per un cd dei Placebo, il primo, “Meds”. Il video si conclude con il ragazzino che accompagna il padre in un centro di cura e siede sul sedile posteriore dell’auto, da sempre posto riservato al padre.

Meds è un album che è il giusto compromesso tra i predecessori e i successori, si intravede l’”accordo” commerciale dei Placebo, ma se ne percepiscono ancora le note che hanno conquistato i fan. Tutto ben lontano da produzioni come BMM, ma neanche tropo scialbe da poter essere accantonate nel dimenticatoio. Spesso mi sono trovata ad ascoltare brani di questo album in maniera scollegata dall’insieme o addirittura seguiti da altri brani lontani luce dalla loro “portata”, quello che di Meds colpisce è la sua abilità di cambiare nell’ascolto.

È un album che se ascoltato da Meds a Song To Say Goodbye ha un senso, un filo conduttore, mentre singolarmente alcuni brani possono sembrare anche “anonimi”, alcuni ho detto, non tutti. Perché Infra-red, ha la potenza di un album intero. Non troppo nelle note dei Placebo ma che a suo modo attira la tua attenzione e se la porta in giro tra meandri malinconici e ironici della tua vita. Il ritornello è pulito nei suoni ed è proprio questo che rende “Meds” un album “strano” per il marchio di fabbrica Placebo.

Chitarra, batteria e basso, non serve altro eppure Molko & co. hanno tirato fuori da questo cilindro sonoro due dei pezzi più belli del loro repertorio, Post Blue e Blind, rimanendo sempre un punto sotto le loro potenzialità, ci ha pensato poi la vita ad alzarne il livello, posizionandole come base per i ricordi belli Post Blue e per ricordi decisamente da archiviare Blind. Because I Want You è il singolo con cui si presentano al pubblico, singolo decisamente in linea con il resto del album, che ai conoscitori non fa presagire né gioie ma neanche dolori, mentre ai profani, sembra bello, buono, passabile o forse sembra solo un pezzo come tanti altri. In questa produzione la sensazione prepotente è che Molko canti un tono sotto, come a non voler disturbare, come se boh, quell’album non volevano farlo o forse è capitato per caso, ma il bello è che qualunque siano state le sue intenzioni “Meds” si fa ascoltare, seppur meno “bello” dei lavori precedenti. Ce n’è per tutti i gusti, le ballate romantiche con gli accendini, suoni dolci e carezzevoli, brani dalle tinte punk e poco indie, altri troppo rock con un tocco palese di “elettrico”.

La perla di questo album a detta di chi scrive è Pierrot The Clown che musicalmente sarebbe il pezzo mancante di Follow The Cops Back Home, come una sola storia raccontata in due momenti diversi, come un pezzo che ascolti a fine serata, tra i bicchieri di plastica rovesciati sul pavimento, i nastri dorati che pendono dal soffitto, incastrati tra le sedie e i tavoli, che ruotano su se stessi e sotto i colpi dei riflettori lasciano riflessi sulle pareti che seguono il tempo di questo pezzo intimo e introspettivo. Bottiglie vuote di prosecco sui tavoli e in lontananza sull’uscio della porta un gruppo di amici, a cui lo spettatore si avvicina lentamente seguendo il flusso della musica, nell’ombra del giardino il rosso delle sigarette accese e sbuffi di fumo intorno, risate in sottofondo e volti stanchi ma felici.

Per quanto si voglia scomporre e ricomporre questo album ci sembrerà sempre di trovarci con un pezzo in più o uno in meno, un po’ come i ricordi che riaffiorano ascoltandolo, frasi che avremmo detto e che solo oggi abbiamo scritto nel migliore dei modi, emozioni che vorremmo fare da parte ma che ancora oggi continuano a fare rumore.

Stride la scelta di Song To Say Goodbye subito dopo un pezzo struggente come In Cold Light Of Morning, che meritava a mani basse di essere l’ultimo, non per bassezza di contenuti sonori o poca profondità di testo, anzi, tutt’altro proprio per la delicatezza del brano e dei suoni che accompagnano doviziosi le parole di Brian, meritava di chiudere qualcosa che fatica a farsi capire ma che a suo modo dice la sua. È un brano che lascia spazio ai pensieri e che può condurti esattamente dove la mente e il cuore non hanno bisogno di mandarsi a fanculo, dove si possono rendere meno onirici i nostri desideri.

Nonostante la mia devozione per i Placebo e nonostante io non possa far a meno di riconoscere che sono state prodotte altre piccole meraviglie, di gran lunga superiori a “Meds”, penso che questo album meriti comunque un posto tra gli ascoltabili, la bellezza è che può essere sezionato a nostro piacimento, ne prendiamo un pezzo lo facciamo nostro, lo facciamo ascoltare a chi non dovrebbe e né lo merita, e nonostante tutto torna sempre a farsi ascoltare anche quando quei pezzi regalati ci sono stati restituiti stropicciati o la maggior parte delle volte completamente in frantumi.

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