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Retrospettive

Dissotterrare l’ascia di guerra: venti lunghi anni sul sentiero dei Tomahawk

C’era una volta il noise rock. No, dai, c’è ancora, però non come prima, per numero di band, no? Sì, ma c’era una volta anche il rock mainstream, eccome se c’era, e più ce n’era più era impertinente e virulenta la risposta di tutto quel rock che non voleva salire ai piani alti, perché aveva altri piani, piani malvagi, pieni di rumore, tanto, fottutissimo rumore. C’erano le etichette che gettavano benzina sul fuoco, Touch and Go, Amphetamine Reptile, Hydra Head, SST, pure qualche major impazzita, e c’erano le band, oh, se c’erano. Beh, qualcuna è ancora con noi, e meno male che sennò avremmo solo quel rock mainstream di cui sopra, o un underground che puzza di vecchio che più vecchio non si può, e vecchi che si esaltano come matti quando sentono questa musica improponibile perché, oh, mica ci son solo le canzonette eh?

Ma dicevamo, c’erano queste band: i Big Black che poi sono diventati gli Shellac, e ovviamente Steve Albini è quasi sempre presente, parallelamente a questa storia e a tante altri, gli Unsane e tutte le loro propaggini, gli Swans, quando gli Swans erano dediti al rumore, prima di diventare altro ingigantendo e sbocciando, i miei amati Oxbow, così poco conosciuti da queste parti, nonostante le amicizie di Eugene Robinson che spaziano dagli Zu a Capovilla e Iriondo e che terminano in una band (Buñuel, per i distratti) e poi, su su, verso le teste di serie, le leggende: The Jesus Lizard, Cows, Helmet. I primi amore di Kurt Cobain, coloro che questo suono feroce lo hanno smosso fino a renderlo immortale, i secondi di fatto leggenda sotterranea ma non meno immensi, capaci di incidere un disco galattico (in realtà tutti, ma seguitemi) e piazzare come copertina una rivisitazione di quella di “Out To Lunch!” di Eric Dolphy, e tanto è grosso per il jazz questo, tanto per il noise rock quell’altro, i terzi, oh beh, grande inizio, immenso, devastante, poi percorso incerto e sfibrati ad oggi poco più di una band tra le tante, ma diamine, la prima metà della loro discografia è un mostro inarrestabile. Tre band, tre uomini, che con questa storia c’entrano più di chiunque altro: Duane Denison, Kevin Rutmanis, John Stanier. Questa storia inizia alla fine del Secolo Breve, in un altro mondo rispetto a questo.

DISSOTTERRARE L’ASCIA DI GUERRA

L’anno è il 1999, i Faith No More non esistono più da un anno, i Mr. Bungle in meno di 365 giorni se ne andranno, Mike Patton è la persona più impegnata del music-biz, è una rockstar di facciata, perché a lui di tirare su il cash, quello vero, non frega un cazzo, e quello stesso anno, assieme a Greg Werckman, fondano la Ipecac Recordings, e quale miglior modo di non arricchirsi se non quello di mettere in piedi un’etichetta indipendente, poco importa se fino a qualche anno prima condividevi palchi giganteschi con Soundgarden e Metallica. La musica è altro. Insomma, Mike da qualche parte deve pur iniziare, e tra le sue prime scelte c’è Duane Denison, coi The Jesus Lizard agli sgoccioli (si scioglieranno a metà dello stesso anno) e coinvolto col gruppo di Hank Williams III – cosa che non gli andava tanto a genio – e l’ex-FNM gli chiede “Hai un progetto per la mia nuova etichetta?”, di rimando il chitarrista gli risponde con una domanda “Certo. Ti va di cantare?”. Spiazzato ma già indurito dalla richiesta, Patton accetta. I due cominciano a scambiarsi materiale: Duane scrive, Mike lo incasina e glielo rimanda. L’ascia di guerra è dissotterrata, nascono i Tomahawk.

Mancano però giusto un paio di elementi per rendere un gruppo rock quello che dovrebbe essere. Duane alza il telefono compone un numero che aveva già in mente da un po’ e resta in attesa di una risposta. John Stanier, in quel momento, è un dj hip hop in quel di New York, casa sua, una faccenda nata per gioco e diventata in poco tempo roba seria, l’amore con gli Helmet è finito dopo l’uscita di “Aftertaste” senza drammi né clamore, e al momento è, come si dice dei migliori calciatori, svincolato. Accetta l’invito di buon grado, conosce tutti gli altri, con Hamilton e soci fece un tour di supporto ai FNM, è tutto perfetto. Mike si porta dietro l’amico Kevin Rutmanis dei Cows e dallo stesso anno entrato nelle fila dei Melvins, quindi sempre di casa Ipecac, e fu proprio King Buzzo a spingerlo ad accettare. Ascoltate le demo, il gruppo si muove verso Nashville per registrare. Secondo Mike il posto è un “deserto culturale”, per Duane il posto perfetto per bere e fare a pugni, quindi, quale altro luogo potrebbe dare vita al debutto del gruppo? Cosa accomuna questo gruppo devastante? A detta di Stanier i film, e beh, quindi come va descritta la musica dei Tomahawk? Cinematic rock. Bene, John centra il punto, e nelle due settimane e mezzo di registrazioni in cui va a formarsi il debutto omonimo si crea esattamente questo: una colonna sonora di un film americano sporco fin nel profondo dell’anima.

Se chiudi gli occhi mentre il disco risuona nella stanza puoi vedere un misto di Abel Ferrara in campo spaghetti-western, i testi appesi tra Carver, Burroughs e Lansdale, tutto ridotto all’essenziale, condito della solita e irreprensibile vena anti-pop e del pop si fanno beffe su POP1, “This beat could win a Grammy”, un brano che non potrebbe vincere un accidenti se non il nostro amore, tematicamente fa paio con Sweet Smell Of Success, spaventosa, cannonate pregne di marciume, Laredo sporchissima, God Hates A Coward maligna oltre il limite, diverrà cavallo di battaglia, Point And Click che ti acchiappa per i capelli e ti porta in giro per un locale sozzo, il pavimento marcio e le piastrelle sbeccate, maledizioni in tempi dispari che diventano Malocchio. Packaging ruvido al tocco, una scritta, il tomahawk e dentro le bellissime tavole di Lynd Ward, del quale è ovviamente Mike il fan e per cui dovranno pagare in seguito perché, beh, il permesso non è stato chiesto in modo appropriato.

Nel giro di poco il gruppo diverrà culto, foto promozionali e live in tenuta da sbirri, cosa che ci farà impazzire tutti, nel bene e nel male. Ma non è finita qui.

QUESTA BAND È UNA CAMERA A GAS

Lungi dall’essere un side-project tra i tanti, Tomahawk è una band vera e propria, e a dimostrarlo c’è il poco tempo che intercorre tra il debutto e il loro cosiddetto masterpiece. “Mit Gas” e il fatto che Duane Denison, vero titolare della sigla, scrive tutto il tempo e questo è il suo unico progetto attivo, ci mette una serietà e una dedizione che ci si aspetterebbe da colui che fece il sound dei The Jesus Lizard e per tanti, sottoscritto compreso, l’album è decisamente molto più complesso e completo del suo predecessore. Ma Duane non è il dittatore che tiene assieme la baracca e tira i fili dei suoi ospiti, i quattro si completano, contribuiscono in tutto e per tutto, anche i testi, come lo stesso Patton ammetterà, sono scritti da tutto il gruppo, perciò il senso di rock è completo, il cerchio è perfetto e chiuso. In questo periodo Denison ascolta la qualunque, dai Radiohead ai Queen Of The Stone Age fino al Twilight Circus Dub Sound System, e la musica di “Mit Gas” ne guadagna, eccome se ne guadagna.

L’album è più oscuro? Sì. A partire dal bellissimo artwork ad opera di Martin Kvamme (che lo stesso anno firmerà pure quello di “Hate Them” dei Darkthrone, mentre nel 2002 si diede da fare su “Volcano” dei Satyricon, giusto per contestualizzare) e Patton, un arabesco dorato in campo nero, scritte in font western, un gusto buio con una sola luce, che va cercate a seconda di come s’inclina il pacchetto. I video, a detta di Mike, sono un costo eccessivo, e lui lo sa bene dati i trascorsi faithnomoriani, e in quel caso a pagare era la major di turno, qui grava tutto sulle spalle della band. Ad una proposta di Adam Jones declinata deriva la scelta di una clip a basso costo, così Rape This Day finisce in rotation su MTV, con una sua storia di perdita della dignità, marciume umano e bassezze, con tanto di cameo di uno che di queste cose ne sa, quel Nick Oliveri in questo periodo parte della famiglia Ipecac. La sei corde fa male se ascoltata dalle cuffie, la batteria enorme e dai riverberi dub e il tutto finisce in un chiodo nella bara del noise rock.

Ancora dub, come se piovesse, su Mayday, stramberie bossanovistiche infestano You Can’t Win, jungle e chitarre semi-acustiche (eccoli i Radiohead!) si battono tra le pieghe Capt Midnight, e qui il cantante, che mille volte ha ribadito di non mettere alcun impegno nel trovare un significato ai testi (che in effetti qua sono ancor più assurdi di quanto già non lo fossero prima, astratti a dir poco), si prolude in un’invettiva disperata nell’unico ritornello del brano e sbraita “I gave you the world, it was all for you / But I’m sick and tired of wasting time, I want mine” e chiude con un “STINKING LIE” che fa paura, il suo amore per lo spagnolo si fa largo sulle dilatazioni tex-mex di Desastre Natural, e le assurde divagazioni acustiche di Aktion 13Fh sono una vera delizia così come la sporcacciona Harelip.

La California, luogo in cui è stato registrato il disco, sembra il luogo naturale in cui “Mit Gas” è potuto nascere, i chiaroscuri che ne formano la storia si imprimono un’altra volta su un album che vedono l’ex-Mr. Bungle coinvolto, come se non riuscisse a liberarsene e, chiaramente, non volesse farlo. La macchina pare lanciata ai mille all’ora su una strada di dischi micidiali in rapida successione, ma così non sarà.

WAR DANCE!

Di punto in bianco Rutmanis lascia il gruppo. La cosa non fa scalpore perché i Tomahawk non sono una di quelle band che sbandierano cose ai quattro venti, e si scopre col tempo. Con l’avvicendarsi del 2007 le cose cambiano, gli impegni moltiplicano, Stanier e i suoi Battles incidono lo spettacolare debutto “Mirrored”, Patton non dà segno di volersi fermare, e tra Fantômas, colonne sonore, lavori con John Zorn (una quantità indegna), Peeping Tom e svariati altri progettini stand alone vede assottigliarsi il tempo a sua disposizione e sul versante Denison le voci di una reunion dei The Jesus Lizard si rincorrono impazzite, oltre al fatto che una nuova band sembra voler nascere (gli U.S.S.A., che condivide col bassista dei Ministry Paul Barker, interessanti, ma fini a se stessi) e nessuno di noi, assetati di nuovo materiale, sembravamo poter vedere i nostri desideri esauditi. Duane, però, da buon ricercatore del suono, si ritrova tra le mani alcune trascrizioni di canti appartenuti ai Nativi Americani e subito sente qualcosa accendersi, e non potrebbe che essere così, o il nome Tomahawk sarebbe messo lì a caso.

Anonymous” ha tutto l’aspetto di qualcosa di estemporaneo, un esperimento. Il gruppo non cerca un nuovo bassista, non frappone più tra sé e il pubblico l’immagine dei quattro sbirri strafottenti pronti a distruggere un palco, anzi, le loro facce scompaiono, per apparire in pochissime immagini promozionali. La musica è più folle che mai, figlia di trasposizioni nate da altre trasposizioni, fatte, a sentire Duane, da “bianchi che volevano solo lucrare”, quindi deve andare all’osso della situazione, ritrovando lo spirito originario di coloro che per primi diedero vita a quella musica mai registrata, rituale, unica, ancestrale. La prima volta che ascoltai l’album rimasi interdetto. Non riuscii a contestualizzane l’esistenza, anche se queste melodie, le percussioni tribali, le voci evocative richiamavano qualcosa, che completai andando a spulciare nella collezione di libri sui Nativi del marito di mia madre e finii catapultato là dove dovevo essere per goderne a pieno regime. Il disco è spettrale e si porta dietro la Storia, è descrittivo al massimo (ancora resta un mistero se Patton tentò il rito del mescalito, come ebbe a scherzarci su, per entrare in contatto con la musica) e dopo tanti anni, rimetterlo su me lo fa piacere ancor di più, con tutti i suoi difetti: non era prodotto dalle feroci mani di Barresi come “Mit Gas”, né era ruvido come “Tomahawk”, era semplicemente…un’altra cosa.

ERAVAMO QUATTRO STRAMBOIDI AL BAR

Niente tour per “Anonymous”. Niente nuovo bassista. Niente Tomahawk. I Jesus Lizard alla fine sono davvero tornati, e alcuni di noi sono stati così fortunati da vederli in azione allo Spazio211 ormai dodici anni fa, con Yow che sembrava più giovane che mai, fuori un freddo belva, dentro il locale pareti che sudano e lui che fa stage diving, spaccando tutto quanto, dando la merda a tutti coloro che pensano di essere dei bravi performer, in poche parole, beh, David Yow, che altro. Il futuro della band sembra segnato, con buona pace di chi non aspettava nient’altro che un nuovo album.

Rimanemmo tutti a bocca aperta quando dalle nebbie di un tempo che parve infinito apparve all’orizzonte “Oddfellows”. Tanto eravamo stupiti dal ritorno in pista dei Tomahawk, quanto poco lo fummo scoprendo che al posto di Rutmanis sarebbe arrivato in forze Trevor Dunn. Il bassista era la scelta naturale, chi meglio di lui? “Sono sulla cortissima lista di quei bassisti non considerati squilibrati. […] Inoltre posso suonare senza problemi roba core super complicata così come un drone che gira su tre note per venti minuti. Ma, cosa più importante di tutte, i Tomahawk hanno riconosciuto la mia tolleranza verso la follia, e in questo business è la chiave di tutto”. Chiaro, preciso, pulito. E alla fine arriva Trevor, alla fine arrivano i compagni stramboidi.

Cambia tutto, anche se non sembra, a partire dall’esterno. Negli anni ’90, Ivan Brunetti, fumettista originario della provincia di Pesaro trapiantato a Chicago, si fece come fan Denison e Patton grazie a “Schizo” e al suo stile abrasivo, irrisorio, perfetto per due come loro. Vent’anni più tardi perché non chiamarlo a creare la confezione del nuovo album della loro band? Una selva di animali colorati presi di profilo, come presi dall’album della compagnia segreta inglese che vide, all’epoca, tra le sue fila anche i genitori di due quarti dei Beatles. Dietro al banco mix Collin Dupuis, già conosciuto dalle parti dei The Black Keys. La follia tomahawkiana torna nei ranghi, vengono a galla situazioni melodiche finora inusitate, come A Thousand Eyes, Stone Letter, la sinuosa Choke Neck (la preferita di Dunn) e il rock rimbalzante di Waratorium. Il sound è intatto, i Tomahawk invece sono completamente rinati, tornati al “rock”, come disse Duane a Consequence Of Sound: “Siamo più vecchi e più saggi. Abbiamo compreso che questa non è scienza missilistica, non è Dungeons & Dragons, non è musica da camera d’avanguardia. Siamo una band rock. Una band rock pericolosa”. Dategli torto.

Questa volta il tour arriva eccome, e chi c’era, quel 28 agosto di otto anni fa (di già?), quando aprirono per i Nine Inch Nails ha potuto saggiare di persona quanto potessero far male, in quel tour, con quella nuova formazione e quei brani. Strani, sì, ma per noi neppure tanto. Reggere poi il peso di quel che sarebbe accaduto poco dopo su quel palco, beh, non è roba da tutti.

FERMI TUTTI

Col passare degli anni pareva che la promessa di quel disco restasse una promessa e nulla più. I Tomahawk di nuovo scomparsi. I Mr. Bungle di nuovo in pista. Non fatecelo, non ancora. Poi, come se la storia si ripetesse uguale a sempre, ecco un nuovo annuncio, e il nuovo album “Tonic Immobility” non più un sogno ad occhi aperti, ma una certezza. La tempesta sulle nostre teste che prende forma. Voi non lo avete ancora sentito ma fidatevi di noi: non sentivate niente di così bello dal 2003. Siete pronti? Non vi resta che aspettare ancora, una settimana giusta. Quella che riceverete non è una stone letter, né un mayday o un monito su coloro finiti sulla lista nera di Dio, oh no, è qualcos’altro. Qualcosa che renderà benzina il vostro sangue. Perché l’anima dei Tomahawk è e resterà sempre questa. Prendete sul serio Denison: sono pericolosi, e ancora non sapete quanto.

(c) Eric Livingstone

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