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“I Do Not Want What I Haven’t Got”, i turbamenti di Sinéad O’Connor

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A 20 anni Sinéad O’Connor aveva già mille lacrime da asciugare, mille ferite da guarire e mille ossessioni che la inseguivano. Un’infanzia che era stata un girone dantesco, un’adolescenza tra collegi e riformatori e la musica come unica ancora di salvezza.

Per via di una voce che era il paradiso dell’inferno, Sinéad O’Connor non ci mise molto a farsi notare nel giro che conta a Dublino e dintorni, e già col primo album lasciò le impronte digitali del suo talento bruciante sulla storia del rock di fine anni ottanta: “The Lion And The Cobra” era un dolce ruggito, una favola rock senza principesse. Era spericolato e coraggioso come la voce da sirena ribelle di Sinéad O’Connor, era il cantautorato che entrava in un’altra dimensione, era il rock che usciva dal campo illuminato delle certezze.

Photo: Michel Linssen

La conferma del talento insolito e torturato della giovane cantautrice arrivò con il bellissimo “I Do Not Want What I Haven’t Got“, appena meno audace e sfrontato nei modi del precedente, ma ancora più segnato dall’ansia di vivere e da una fragilità che era più forza che debolezza. Il singolo Nothing Compares 2U ne fece la Regina in lacrime delle classifiche: era un pezzo di Prince che parlava del dolore causato da una separazione. Sinéad O’Connor ne fece una versione meravigliosamente straziante pensando alla morte della madre, prese quel dolore per farne materia palpabile, vivida, divorante. Nothing Compares 2U era solo il nervo scoperto più in vista di un album che portava in confessionale la nuova pasionaria disperata e romantica del rock .

I Do Not Want What I Haven’t Got” era un grido di emancipazione, un attestato di fede, un’invocazione d’amore. Si apriva con Feel So Different, una litania recitata su un’elegante nuvola di archi e cori che riprendeva il testo della Preghiera della Serenità di Reinhold Niebuhr: Sinéad O’Connor, accusata all’epoca di fiancheggiare l’IRA, deponeva il mitra e cominciava a pregare. “I Do Not Want What I Haven’t Got“, era il suo canto libero, e in I Am Stretched On Your Grave si permetteva di riattualizzare un antico poema gaelico a ritmo di hip hop.

Il folk col cuore in mano di  Black Boys On Mopeds era la rabbia e l’indignazione di ‘black lives matter’ trent’anni prima. The Last Day Of Our Acquaintance era dolorosamente autobiografica: iniziava con un sussurro urlato che stanava la rabbia per poi esplodere in un’epifania di cori e chitarre che mozzavano il respiro. Dolce e nevrastenica insieme, Sinéad O’Connor sgranava il suo rosario di turbamenti offrendoli ora all’indie rock, ora al pop orchestrale, ora alla ballata folk, lasciando alla voce il compito di trovare il fil rouge per tenere assieme l’impeto e la tenerezza di Three Babies, The Emperor’s New Clothes e Jump In The River.

I Do Not Want What I Haven’t Got” divenne disco di platino in mezzo globo, e Sinéad O’Connor era ormai una diva con il mondo ai suoi piedi. Durò poco: nell’ottobre del 1992, al Saturday’s Night Live, dopo l’esecuzione di War di Bob Marley, l’artista dublinese fece a pezzi in diretta la foto di Papa Giovanni Paolo II per denunciare gli episodi di pedofilia perpetrati dalla chiesa cattolica. Disse di voler salvare Dio dalla religione. Finì col cercare disperatamente qualcuno che la salvasse da se stessa.

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