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Back In Time

“Vintage Violence”, la provocazione di John Cale

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Quando Lou Reed cantava Heroin, John Cale era quello che con la sua viola elettrica ti faceva sentire il dolore dell’ago che entrava nelle vene. Allorché lasciò i Velvet Underground, alla band rimase il cinquanta per cento del genio: il disco omonimo del ’69 e “Loaded” erano pregevoli, ma mancava il mistero e la magia di quel suono che era insieme inferno e paradiso.

Uscito dalla band per divergenze artistiche ( più o meno), Cale non perse tempo per sbobinare attorno al proprio sfaccettato talento una carriera all’insegna di un’ecletticità audace e beffarda. Cominciò con le produzioni: prima il viaggio nelle tenebre di “The Marble Index” di Nico, poi la tempesta di fulmini dell’esordio degli Stooges. Nel frattempo, scrisse qualche canzone da intellettuale dandy che finì su questo “Vintage Violence“, praticamente quanto di più lontano potesse esserci dalle passarelle perverse sulle quali sfilavano i travestiti e gli spacciatori dei Velvet Underground.

Vintage Violence” sembrava una provocazione e una sfida: con quel ghigno da ‘..col cazzo che mi avrete vivo..’, John Cale aveva lasciato Lou Reed e gli altri sulle note dell’album più oltraggioso della storia del rock’n’roll, “White Light/ White Heat“, ed ora ritornava con un pugno di ballate che dicevano le preghiere a Brian Wilson, alla Band di Robbie Robertson e a Phil Spector. “Vintage Violence” era lontano tanto dalla paranoia malata dei Velvet quanto dall’avanguardia con la quale si era formato lavorando con LaMonte Young e Terry Riley e alla quale sarebbe comunque poi ritornato: era un album da cantautore pop, da chansonnier esistenzialista, più raffinato che trasgressivo, era il trionfo della melodia. Era l’ingegnosa trovata di mettere una maschera e aggirare il rischio del confronto con quello che intanto stava facendo il suo ex capoclasse.

Apriva il piano scanzonato di Hello There, un gioiello di canzone che dava il tono al disco: anni dopo i Wilco l’avrebbero clamorosamente plagiata facendola diventare Wilco (The Song). Probabilmente, dietro l’aria sbarazzina ( Adelaide e Cleo) e qualche volta lussureggiante delle canzoni ( l’incantevole Big White Cloud ), c’erano le pressioni della casa discografica, e per bilanciare la rotondità delle melodie l’ex Velvet ci metteva il caustico sense of humor di testi astratti, enigmatici, e qualche volta macabri, come in Ghost Story.

John Cale stava preparando il terreno per futuri capolavori: quando gli umori di “Vintage Violence” avrebbero subito il fascino dell’arte e della storia del vecchio continente, sarebbe arrivato l’enorme “Paris 1919“, una fiabesca e romantica combinazione tra pop e musica da camera. Amsterdam era acustica ed austera, e magari un posto sul terzo album dei Velvet l’avrebbe pure trovato, e Gideon’s Bible aveva un coro divino che incrociava i Beach Boys e i Mamas And Papas, mentre Bring It On Up e Please lasciavano entrare una piacevole brezza country- rock.

Vintage Violence” era elegante e sofisticato senza rinunciare alle sottili nevrosi di chi aveva imparato quelle due o tre cose sul rock’n’roll nel sudiciume e la spazzatura della giungla metropolitana. Su quei marciapiedi ci sarebbe poi ritornato con l’epifania claustrofobica di “Fear” e con la processione rockista di “Slow Dazzle“, l’album col quale rimetteva i Rayban neri e il giubbotto di pelle che aveva lasciato nel guardaroba della Factory.

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