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Tomahawk – Tonic Immobility

2021 - Ipecac Recordings
noise rock

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Tracklist

1. SHHH!
2. Valentine Shine
3. Predators And Scavengers
4. Doomsday Fatigue
5. Business Casual
6. Tattoo Zero
7. Fatback
8. Howlie
9. Eureka
10. Sidewinder
11. Recoil
12. Dog Eat Dog


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Vent’anni fa, non c’eri che tu. Mi perdonerete se leggendo questo incipit vi ritroverete a canticchiare la hit resa famosa dai Delta V (forse la preferite cantare pensando a Califano? Io sì) ma accade questo se associo il 2001 a Mike Patton, i suoi progetti e tutti i suoi roventi amici. Sul finire di quell’anno, entrando in un negozio di dischi, ovunque si volgesse il vostro sguardo avreste trovato qualcosa legato all’ex-Faith No More: su uno scaffale “The Director’s Cut” dei Fantômas, su un altro, in una zona franca tra hip e trip hop il primo ed unico album dei Lovage (un vero peccato) e là, in mezzo a The Jesus Lizard ed Helmet i Tomahawk.

Vent’anni dopo accade ancora, più o meno. I tempi sono cambiati, le persone pure, il mondo fa ancora più schifo. Lo avreste creduto possibile, allora? E invece è andata proprio così. Nel momento del bisogno e della bassezza più infima, la cosa migliore che possa capitare, beh, è che band come i Tomahawk compiano quei famosi quattro lustri (o almeno, li compie il loro album d’esordio) e festeggino con un nuovo album. Durante lo scorso anno saperli in studio è stato un balsamo, perché troppo tempo era passato dal bellissimo “Oddfellows”, sorta di rinascita dopo la parentesi sicuramente interessante ma che non bissava nemmeno lontanamente l’allora recente passato, di “Anonymous”. Il timore era il solito: fine dei giochi. Ma no, il richiamo del rock spesso è troppo forte, e l’immobilità a cui chiunque è stato obbligato da inizio 2020 ha giocato un ruolo fondamentale per la nascita di “Tonic Immobility

Sin dal titolo è chiaro il riferimento a quanto si è passato, e Duane Denison sottolinea che, sì, il periodo che viviamo, fermi come statue di sale, è duro e orrendo, ma, volendo guardare ad un possibile risvolto positivo lo potremmo trovare laddove immobilismo significa anche tirarsi fuori dalle dinamiche di un mondo in cui la frenesia ci stava (e ci sta ancora) tritando, e non in maniera coatta, poiché ci doniamo volontariamente all’autodistruzione. Il senso di immobility si ferma qui, perché il disco è un’ordalia rock (anzi, “modern hard rock”, come autodefinisce la creatura il chitarrista dei Jesus Lizard), irrefrenabile e mostruosamente potente.

È proprio la chitarra tagliente a buttarci dentro questo ottovolante impazzito, e tutti gli altri al codazzo, danno fuoco a SHHH!, coi segreti buttati al vento, esortati al silenzio mentre tutto attorno è il rumore a frantumare tutto, è tutto uno stop’n go, un macello senza fine. Business Casual è il distintivo scintillante appuntato sulle uniformi di Dunn e Stanier, in tempi che si scontrano e pigliano a bastonate sul volto, strafottenza precisa come il taglio di un chirurgo che opera con uno spadone a due mani, col basso che rotola giù per la scarpata. Quando attacca Sidewinder pare che Patton voglia portarci al ballo, ci porge il braccio ma poi ci trascina sul ring e veniamo presi a legnate e messi al tappeto, tra le grida più disperate sulla piazza per poi tornare in un’oasi di tranquillità assoluta. Come poi non riportare alla mente l’espressione affilata del Maestro Morricone, grande amore pattoniano, mentre Doomsday Fatigue prende forma pian piano, nel deserto, un duello, sguardi che si scrutano, primissimi piani di occhi ghiacciati e un attimo dopo, canne fumanti.

Non lo vuole politico, il suo rock, Duane, eppure le allegorie faunistiche di Dog Eat Dog e Predators And Scavengers sono chiare come il sole: società in cui i carnivori si azzannano al collo, lottando per il dominio su un ambiente che più ostile non si potrebbe, e la musica è conseguenza diretta, con la seconda buttata a rotta di collo nel tunnel dell’hardcore alla maniera dei Tomahawk, con progressioni di sei e quattro corde che fanno su e giù facendo tutto a brandelli. La violenza, poi, ha volti sempre diversi: in Valentine Shine è brutale come un calcio nel culo dato alla massima potenza, Mike che veste i panni del punk che non vuoi incontrare sul tuo cammino, Fatback è laidissima, si finisce schienati a respiro mozzato, Denison incessante presenza che tutto infesta, settata da una parte su una catena tritaossa, dall’altra nella più assoluta follia dei suoi progetti jazzadelici, e intanto Howlie è sorniona, prende corpo sull’incipit “fat, dumb and poor” e poi accende una fiamma ossidrica ed eradica tutto, sul volto dipinto un ghigno sardonico che nulla ha di rassicurante, falsetti stridenti che radono al suolo tutto.

Il 2021, per il rock, finisce qui. Sì, non accettiamo repliche, poiché i Tomahawk ci hanno messo un sigillo ben resistente ad un messaggio preciso: non siamo soliti scherzare. Sfido chiunque a tentare di rimuoverlo e a smentirli.

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