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“My Brother The Cow”, la rabbia dei Mudhoney ribolle ancora

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My Brother The Cow” è uno di quegli album che non sai veramente come considerare. Beh sì, quando uscì nel 1995 fu molto facile abbracciarlo appassionatamente ed abbandonarsi assieme alle sue tracce, per colmare quel vuoto che Kurt – solo un anno prima – aveva lasciato. C’era bisogno di credere che il Grunge non fosse finito. I Foo Fighters dovevano ancora fare uscire il loro primo album, ed un mondo di adolescenti e non era in attesa di qualcuno che dimostrasse che la loro utopia musicale fosse ancora possibile.

Ora, ad oltre vent’anni dall’uscita di quell’album e col senno di poi, l’ottica potrebbe essere molto diversa. Innanzitutto chi erano i Mudhoney? Erano anche loro di Seattle ed alcuni membri provenivano dai Green River: una band embrionale di molte future band di successo (tipo i Pearl Jam per intenderci). Non furono loro ad inventare il Grunge, ma di certo ne furono tra i primi interpreti. Grezzi. Quando pensate ai Mudhoney, pensate a dei Nirvana che – dopo “Bleach” – invece di intraprendere la strada di “Nevermind”, si siano spinti verso lidi più caotici. Magari generando un “Incesticide” al cubo, e via cosi.

Erano contemporanei ai Nirvana, questo è vero, ma non riuscirono a (o non decisero di) uscire dall’impronta musicale di Seattle più a lungo. L’impressione è soprattutto che mancassero di quel carisma giusto per arrivare bene al pubblico di massa. Non che i testi dei Nirvana – soprattutto in “Bleach” fossero poi molto diversi, ma c’erano barlumi molto più promettenti. Il disagio di Kurt arrivava forte e chiaro. Quello dei Mudhoney si perdeva in strade ancora troppo tortuose. Accadde quindi che le altre band iniziassero a fare soldi e macinare concerti. Alice In Chains, Pearl Jam e gli stessi Nirvana. E i Mudhoney? Scalciavano ma senza far male. “Piece Of Cake” (1992) e “Five Dollar Bob’s Mock Cooter Stew” (1993) non sono orribili, ma per niente memorabili.

Nell’immediato post-Kurt, però, arrivò il loro momento, dal titolo My Brother The Cow. Qualche critico insinuò che si riferisse proprio alle altre band grunge, che nel frattempo erano diventate “cash cows”. “Mucche da latte”, ovvero macchine da soldi. In realtà nemmeno questo album può risultare minimamente paragonabile alle pietre miliari del Grunge, ma F.D.K, Generation Spokesmodel e Into Yer Shtik sono le tracce che riescono a donargli quel minimo di equilibrio in più. Poi nuovamente il nulla.

È naturale chiedersi quindi se “My Brother The Cow” sia stata la volta in cui i Mudhoney provarono ad essere più commerciali, senza riuscirci più di tanto. Oppure pentendosene subito dopo, senza però mai tornare veramente al Grunge, ma avventurandosi in sonorità più alt-rock, passando dal manipolo dei precursori del genere a coloro che aiutarono infine a sotterrarlo. È anche vero che in fin dei conti anche “Foo Fighters”, primo album dell’omonima band formata dall’ex Nirvana Dave Grohl, che uscirà qualche mese dopo, sarà anch’esso tutto meno che Grunge.

Da questo punto di vista, “My Brother The Cow”  potrebbe essere visto come un punto di chiusura definitivo e nichilista, un dito puntato verso le altre band. “Se voi avete finito col farci soldi sopra, perché non possiamo farlo anche noi?”. Oppure, questo album è la classica voce fuori dal coro che nella sua stonatura racchiude la vera essenza di quel disagio, della vera solitudine. Quella pura rabbia ancora più estrema e immune ai dettami delle major. Quegli angoli brutti e sporchi di Seattle dove Kurt e compagni non riuscirono mai ad arrivare, e che ancora ribollivano di quel disagio generazionale di una America bigotta. Di una società divorata dal consumismo e dalla fobia del diverso.

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