Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“12 Bar Blues”: storia di un uomo fragile

Amazon button

Una caratteristica dei fuoriclasse è sicuramente quella di non mettere tutti d’accordo, anzi, a volte, di provocare reazioni talmente avverse da spaccare in due tra schiere di fan e denigratori.

Nel marzo del 1998, quando uscì “12 Bar Blues”, ero al negozio di dischi e il proprietario ne aveva qualche copia in cd (perché uscì solo in cd e non credo, ad oggi, sia mai stato stampato in lp). Lo mise nel lettore e, dopo i primi secondi, me ne andai fuori stizzito a fumare una sigaretta e a chiacchierare con altri avventori talmente mi aveva lasciato impietrito. Questo perché Weiland aveva prodotto un disco che non si adeguava alle aspettative dei fans degli Stone Temple Pilots, cioè alle orecchie di tutte le persone normali che conoscevo. Ma il destino era dietro l’angolo, o meglio, nell’angolo delle offerte perché, tra i cd in offerta quel giorno, mi portai a casa un live dei Masters Of Reality, esattamente “How High The Moon: Live At The Viper Room” uscito l’anno prima, me lo ascoltai e, sorpresa, chi incontro come guest vocalist se non Scott Weiland

Scott canta una strofa in “Jindalee Jindalie” insieme a Chris Goss, un pezzo alternative dalla dimensione country/western. Una strofa che dire toccante è veramente poco e mi arrivò tutta la disperazione dell’anima dello Scott solista concentrata in pochi secondi e in quel momento capii la sua potenza.  Per farla breve, il giorno dopo fui l’unico in città a comprare il cd di “12 Bar Blues”.

La voglia di produrre un album cantautor/sperimentale/lo-fi e la Atlantic che ti permette di farlo qualunque sarà il risultato, basta che non te ne vada dalla tua band principale. La copertina che richiama, per un vezzo unicamente grafico, Coltrane.

Dopo la traccia d’apertura, che con quel noise inserito tra un human beatbox e una voce sussurrata e stanca, volontariamente fa storcere il naso a tutti per metterci davanti alla distanza che intercorre da questo debutto solista ai familiari “Core” e “Purple”, arriva lui, arriva Scott, si scopre con Barbarella, si spoglia degli abiti del frontman instabile e fa intendere con chi si ha a che fare, ovvero con una delle grandi voci, uno dei più straordinari interpreti degli anni 90. Scott sapeva che “12 Bar Blues” è l’album di cui aveva bisogno ma ne avevamo bisogno anche noi. Perché, come da copione, doveva alleggerirsi dalla pressione della band e della fama e dei tour e noi, di disinossicarci da certi cliché di fine millennio. Tra l’altro, guardano indietro a quegli anni pre-internet, le rockstar, dato che il rock andava in classifica, venivano spremuti come limoni.

Quindi Scott prende la sua strada, cacciato dalla band per le solite cose da frontman eccentrico e se ne va, come in Where Is The Man: la disperazione al meglio, nella sua forma più alta. Una voce che chiede “Dov’è il tuo uomo? Si è perso un’altra volta. E ti dirò quello che vuoi sentirti dire “. Perché la realtà è troppo squallida, perché non c’è altro dietro alle assenze dell’uomo se non un’ineluttabile storia di dipendenze. È la storia di un uomo fragile, che esce da un periodo inesplicabile, Scott, dietro al volante, lontano dal grunge, dal successo commerciale, lontano da tutto, dimostra di essere molto di più del canonico cantante maledetto di una rock band di successo, dimostra di essere autore e artista sperimentale, unendo melodie orecchiabili a interventi rumorosi e lo-fi. 

La sua voce straziante raggiunge picchi di emotività altissimi come in Son. È un cambio di linguaggio, è la stessa voce di “Interstate Love Song” in un contesto diverso: casa sua, dato che “12 Bar Blues” è stato interamente registrato a Casa Weiland, quindi abbiamo il circondarsi di ambienti familiari, che lo rappresentano per esiliarsi e disgiungersi dal palcoscenico dei tabloid, rendendo la sua comunicazione disinnestata da quella del mainstream, 

La voce di Scott è la luccicanza, è quel bagliore, quel lampo che arriva di tanto in tanto, come nella circense Lady Your Roof Brings Me Down, è quella profondità che viene toccata solo quando raggiunge determinate intensità, e forse sta proprio lì il parallelo con Coltrane, forse le affinità sono molte di più di quelle che ci immaginiamo, è un genio a cui piace giocare e portarti in luoghi diversi, poco battuti, come in Divider, in cui jazz e swing si abbracciano dietro ad uno xilofono, e quella ricerca, quel distorcere chitarre all’esacerbazione era solo il suo modo di andarsene, il suo modo di dire che lo Scott che avevamo visto fino a quel momento non c’era più, e così è stato. Riscopritelo.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati