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Mi guardo indietro e vedo “Quello che non c’è”

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Il primo disco veramente atteso di una band non si scorda mai. Si porta appresso un bagaglio di sentimenti che, se troppo intensi, possono spaventare. Ci si sente soffocare se il giorno dell’uscita, varcata la soglia del negozio di dischi, non lo si trova già lì, pronto per noi, ed entrarne in possesso diventa situazione quasi religiosa, di adorazione. Il timore reverenziale nel varcare la soglia e osservare di sottecchi i pacchi consegnati poco prima dal corriere, cercare di indovinare da come ci guarda il negoziante se dentro ad uno di quei contenitori ancora sigillati, o appena aperti, c’è il nostro tesoro. Il disco aspettato. La musica nuova di una band che si ama senza condizioni. Almeno fino a quel momento.

Parlo al presente, ma questa scena non ha nulla di contemporaneo. È ciò che avveniva prima dell’avvento dello streaming digitale. Chi di noi ha vissuto qualcosa di simile a quanto descritto poc’anzi, però, attende con egual ansia la mezzanotte del dì della pubblicazione, non vedendo l’ora di ascoltare qualcosa. Per me, nel 2002, tutto ciò accadde con “Quello che non c’è”. Due anni prima scoprivo gli Afterhours. Due anni prima mi innamoravo delle parole sibilline, gridate, sornione, pornografiche, sboccate di Manuel Agnelli, delle chitarre sfasate, delicate, taglienti, intense, brucianti di Xabier Iriondo, del modo meccanicamente fluido, del tocco, della potenza con cui Giorgio Prette dettava i tempi di tutto e altro ancora. Col tempo ho cominciato a scoprire tutte le sfumature degli Afterhours: quelle feroci di “Germi”, le pazzie di “Hai paura del buio?” e, infine, del pop bruciato dal rumore di “Non è per sempre”. Erano due anni che aspettavo e speravo nel loro ritorno. Leggevo di rotture all’interno della band, mi si spezzava il cuore, sapevo che Xabier non ci sarebbe stato, nel loro futuro, e questo bastava a farmi tremare. E se si fossero sciolti? Mi era già capitato troppe volte di innamorarmi di un gruppo e che questo si sciogliesse poco dopo: At The Drive-In, Rage Against The Machine, basterebbero. Non anche voi, vi prego.

Non fu così. Sui giornali cominciavano ad uscire le pubblicità di “Quello che non c’è”, e poi la title track sugli schermi. Cosa sarebbe successo, a questi After adulti? A questi After senza quel chitarrista? A questo disco con la copertina oscura, un presagio di tempi bui e cupi. Ricordo nitidamente il mio disappunto dopo il primo ascolto. Avevo sedici anni e, seppur già avvezzo a musica meno incazzata, a quella guardavo, sbavante. Volevo più elettricità di quanta non fosse sufficiente e questo album, così slow, quasi meditativo lo trovai “sottotono”. Che sciocco. Non gli diedi tregua, e continuai a mandarlo giù in gola, giorno dopo giorno, e lì capii che non si trattava di toni bassi ma di introspezione, un viaggio lungo dentro se stessi, sempre più a fondo, più in basso.

Con “Quello che non c’è” mi ricordai di quella puntata di MTV Kitchen in cui Agnelli chiacchierava amabilmente con Emidio Clementi, me n’ero scordato, e quel Mimì in Bye Bye Bombay altri non era che lui, cui il disco traeva ispirazione (oltre a Cesare Basile) e si schiudeva tutto un mondo che finora veniva, da me, colpevolmente ignorato. Le chitarre non gridavano più erano al servizio di un mondo allucinato, a cui dare spazio c’era il violino di Dario Ciffo, sempre più presente, con la voce indolente di Manuel, un Manuel coi capelli corti, che soffre e lo fa apertamente, che sputa impassibile, questa volta. Tolto il CD dal jewel case si può leggere la frase “e come può il mio amore essere limpido se è la mia nazione che l’inquina so come un uomo deve decidere ma ora non so più cosa sentire”, e sì, odiare è un diritto, e Sulle labbra lo rende ancor più necessario, perché l’odio non è solo furia, può essere qualcosa che ti brucia i nervi appena sotto la pelle, che sbatte sui muri della frustrazione. Non sapere come sentirsi, non sapere dove stare.

In un inizio di Millennio in cui il mondo prende una velocità che non smetterà mai di crescere e diverrà la nostra vera malattia, uno sguardo attento capisce quanto il delirio sia una maledizione totale, La gente sta male è questo, si prende il suo tempo per descriverlo, per preconizzare qualcosa che ci avrebbe fatti impazzire totalmente. Ancora, in un afflato di rock archeologico l’urlo furente di Non sono immaginario, aggrapparsi ad un’esistenza che si può toccare e, al tempo più che ora, io mi sentivo evanescente, credevo che nessuno ricordasse nemmeno il mio nome e questo divenne il mio mantra, feci mio cantandola gridando più di quanto non facesse Manuel, che pareva solo stanco, in approdo sulle lente afflizioni lenitive, gli avvertimenti di Il mio ruolo, che si dilata all’infinito come un atterraggio interiore pieno di scosse emotive.

Sono passati tanti anni, quasi venti, da quando lo misi nella radio la prima volta e oggi sono cresciuto e, quando lo riascolto, “Quello che non c’è” mi dà la sensazione di comprendere appieno, finalmente, a che frequenza avrebbe dovuto battere il mio cuore quel giorno di tanto tempo fa. È un disco adulto, maturo, una vera transizione che di musicale ha in sé un cambiamento ma che parla di crescita umana e della sua caduta.

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