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“Reject All American”, le Bikini Kill e l’ultima fiammata del punk rock femminista

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Il fatto che “Reject All American”, l’ultimo album delle Bikini Kill, e il debutto delle Spice Girls siano entrambi stati pubblicati nel 1996 forse dovrebbe farci riflettere sui motivi per cui non vi sia mai stata una vera esplosione femminista nel mondo della musica. È chiaro che, accostando due nomi così diversi tra loro, intendo allargare il discorso a una questione che scavalca i confini che separano l’underground dal mainstream e interessa a trecentosessanta gradi l’articolatissimo universo dell’industria dello spettacolo. È una generalizzazione? Sì, può darsi. Ma il problema è trasversale e non conosce freni.

Chi ha provato a cambiare le carte in tavola, come per l’appunto le Bikini Kill negli anni ’90, alla fine ne è uscito ingiustamente sconfitto. Perché a condurre il gioco, oggi come ieri, non è chi difende un’idea realmente valida, ma chi riesce a trasmettere con efficacia un messaggio semplice e diretto (quando non addirittura banale). E così, nella strana staffetta rosa qui presa in esame, il lento declino del movimento Riot grrrl si sovrappone al trionfo di uno slogan di facile presa (Girl Power!) dietro il quale però non si nasconde alcun tipo di contenuto: sono solo due parole a effetto – con il punto esclamativo ad aggiungere un pizzico di enfasi in più – da stampare su magliette da vendere a milioni e milioni di ragazzine. Se il titolo del primo demo tape delle Bikini Kill, “Revolution Girl Style Now!”, fosse stato un motto, sarebbe stato molto più potente ed evocativo di quello scelto dai manager della girl band britannica: è un urlo di protesta e, al tempo stesso, una dichiarazione di indipendenza e guerra al maschilismo in tutte le sue forme.

Per Kathleen Hanna, la cantante del quartetto di Olympia, il vero male del punk rock statunitense si chiama mascolinità tossica. La rete di femministe militanti che ruota attorno al microcosmo Riot grrrl lotta per distruggere un ciclo reazionario che minaccia ogni singolo aspetto della vita della scena: dalla violenza dei concerti alla virilità malamente ostentata da alcuni frontmen, passando ancora per gli abusi e l’emarginazione pressoché totale delle donne. Catene da spezzare con la forza di un sound dirompente, grezzo e incisivo: proprio come quello che caratterizza “Pussy Whipped”, l’esordio delle Bikini Kill datato 1993.

Reject All American”, il suo meno noto e apprezzato successore, è un lavoro decisamente più accessibile. La carica selvaggia del punk viene attenuata dall’introduzione di elementi pop e di atmosfere a modo loro leggere e solari. Kathleen Hanna adotta la saggia decisione di abbandonare parzialmente le vesti di sguaiata urlatrice per rivelare agli ascoltatori un talento melodico assolutamente degno di nota. La produzione di John Goodmanson appiana le asperità e ci restituisce un suono a due dimensioni che, in base al tasso di energia dei brani, può essere definito e rotondo o ruvido e tagliente.

Un album ricco di sfumature, che alterna parentesi di deflagrante punk rock “sporcato” di garage (Jet Ski, Distinct Complicity, No Backrub) a momenti di quiete in cui, strano a dirsi, a dominare è la dolcezza della voce della leader del gruppo, che canta soavemente di prigioni emotive (False Start), amici morti precocemente (la straziante R.I.P.) e amari ricordi del passato (For Only).

I testi, pur non essendo graffianti ed espliciti come quelli delle prime uscite, continuano a essere legati a doppio filo alla causa femminista. Lo spirito barricadero e militante del movimento Riot grrrl, dopo anni di sforzi troppo spesso vani, sembra però ormai essersi appannato e ridimensionato. È il segno dei tempi che cambiano: il manifesto politico si trasforma, si semplifica e perde pezzi, scomponendosi in mille frammenti. Restano le grida di battaglia di Tony Randall (I see a punk club/He sees a strip bar), Reject All American (If you work hard/You’ll succeed/A starring role/On Nothing Incorporated) e Finale, la traccia che conclude il disco e la carriera delle Bikini Kill. Un ultimo saluto per celebrare il funerale di un sogno di emancipazione, pochi istanti prima di esser travolti dalla superficialità del Girl Power: We’re the girls with the bad reputation/We’re the girls gonna make you pay/We’re the girls with the bad reputation/We are gonna have our say.

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